mercoledì 9 giugno 2010

Lucio Klobas

Bergamo, 26 settembre 2007

Lucio Klobas ricorda il poeta e critico Alfredo Giuliani, da poco scomparso
LA MORTE “NON L’HA ANCORA CONVINTO”

Nel salotto di casa Klobas, i libri di Alfredo Giuliani formano una piccola montagna sul tavolino. Lucio Klobas è lo scrittore istriano che coinvolse il poeta e critico romano, nato a Mombaroccio (PU) nel 1924 e scomparso lo scorso 20 agosto, nell’avventura del Premio Nazionale di Narrativa Bergamo.
Tutti i volumi accatastati – le raccolte di poesia dagli anni ’60 fino all’ultima “Poetrix Bazaar” (2003) e all’antologia “Furia serena” (2004); il romanzo sui generis “Il giovane Max” (1972); “Le droghe di Marsiglia” (1977), uno dei suoi volumi di saggi – portano una dedica originale, a volte bizzarra. Sul frontespizio della storica antologia “I novissimi: poesie per gli anni ‘60” (della quale – oltre a comparire come autore con Nanni Balestrini, Elio Pagliarani, Antonio Porta ed Edoardo Sanguineti – Giuliani fu curatore) si legge la data fatidica del 1 gennaio 2001 e una scritta: “A Lucio Klobas, dallo spazio. Bologna, Costellazione dei Pesci”.
“Rileggerla ora mette i brividi” – commenta il destinatario. “Giuliani è stato prima di tutto un amico e un maestro. E adesso vorrei ricordarlo usando due sue frasi. Al verso citato da Paolo Mauri nell’articolo del 21 agosto su “Repubblica” – “Non mi piace molto di niente” – aggiungo un pensiero da “Il giovane Max”, che da solo forma un intero capitolo: “A me la morte non m’ha ancora convinto”....

Allora è veritiera quell’immagine di “moschettiere della giocosa avanguardia”, che lo stesso Giuliani coltivava?

“A lui piaceva l’idea del poeta-clown che con il sorriso sulle labbra ti dice cose assai pungenti. Però – fin dai tempi de “I novissimi” e dell’esperienza immediatamente successiva, il “Gruppo 63” – ha sempre considerato l’avanguardia come un gioco molto serio.
Molti misero allora in dubbio la genuinità di questa “cricca romana” (che Giuliani formava con Alberto Arbasino, Angelo Guglielmi, Luigi Malerba, Giorgio Manganelli e parecchi altri), venuta dopo la grande avanguardia europea di Ezra Pound e Thomas Eliot, e che a sua volta sembrava prendere a modello i tedeschi – Heinrich Böll, Günter Grass e altri – di “Gruppo 47”.
Ma il “gioco” non era fine a se stesso: doveva portare a un rinnovamento del linguaggio sulla base degli apporti della psicoanalisi, dell’antropologia, delle scienze in genere; e a un salutare ridimensionamento dell’io poetico. Basta insomma con i vari “io ti amo”, “io vorrei...”; basta con il soggettivismo arbitrario! Non c’era più un “io” che si installava al centro del mondo, ma un universo linguistico che di volta in volta poteva essere plasmato e coniugato in vari modi. E Giuliani era il teorico del gruppo, il più preparato anche a livello filosofico”.

Ma si è trattato di un movimento con tutti i crismi?

“La sostanza c’era tutta, tanto che nel passaggio dai “novissimi” al “Gruppo 63” uscirono allo scoperto le due anime del gruppo: una, per così dire, linguistica e una più politica. Giuliani abbracciò subito e senza esitazioni la “corrente linguistica”: sosteneva che la società andava sì rigenerata, ma dall’interno, mediante un uso particolarmente incisivo – violento, sferzante se necessario – della scrittura. Anche Guglielmi era dalla sua parte, mentre i più estremisti – Balestrini, Renato Barilli, Sanguineti – sostenevano invece la necessità di un impegno politico diretto.
Intorno al ’68 lo scontro si fece molto aspro. Giuliani lasciò la direzione di “Quindici”, il periodico Feltrinelli che faceva riferimento al gruppo: e che cessò le pubblicazioni dopo un breve tentativo di continuare come rivista politica”.

Che idea aveva Giuliani della poesia?

“Ricordo la risposta che diede anni fa nel corso di una serata in suo onore, quando un tale dal pubblico gli chiese – più o meno – “come nasceva una poesia”. Era una domanda colossale, impossibile da rintuzzare su due piedi! Senza scomporsi, Giuliani rispose che – prima di “buttar giù” parole più o meno a caso (penso a Dylan Thomas, che apriva il dizionario, faceva cadere la penna su una voce e da quella cominciava...) – la poesia andava “progettata” esattamente come si progettano una casa o un’automobile. In partenza dovevi avere un’idea – magari minima – un nucleo linguistico, un’emozione, una percezione particolare, e da lì costruire un percorso. Anche “a freddo” – sosteneva – si potevano scrivere cose alte, anzi per certi versi era meglio: solo che dovevano uscire talmente bene da non sembrare scritte a freddo. L’ispirazione, la famosa “scintilla”? Per lui erano sciocchezze”.

Una concezione molto legata all’“avanguardia” e forse anche ai tempi...

“Anche Giuseppe Pontiggia la pensava così, quando – parlando del suo “metodo di scrittura” – partiva dal famoso detto “cavare un ragno dal buco”. Nel senso però che il buco era per lui l’inizio di tutto: come a dire che “hai già il buco”, che un contenitore per quanto minuscolo c’è, e adesso tocca a te lavorarci intorno, estrarre parola per parola.
Però un punto di partenza bisogna trovarlo! Possiamo ridimensionarlo, arretrarlo il più possibile: però quel momento – lo sanno bene tutti gli scrittori – è imprevedibile, incontrollabile, è la scintilla che arriva inattesa dopo giorni interi passati su una pagina o su un problema. Il momento magico, creativo, vale per il poeta come per lo scienziato: è sempre un’intuizione che non controlli. Poi, se hai esperienza e mestiere, impari a riconoscerla e allora ha meno probabilità di sfuggirti”.

Quali erano i riferimenti letterari di Giuliani?

“Erano numerosi, ma si restringono molto se ci si limita a coloro per i quali – come per lui – il linguaggio era il centro della creazione artistica. Sotto questo aspetto, l’ideale di Giuliani non poteva che essere un autore come Carlo Emilio Gadda. Gli metterei a fianco Alfred Jarry, inventore dell’epopea di Ubu e di quella fortunata disciplina pseudoscientifica che si chiama “patafisica”. In poesia – oltre a Eugenio Montale e a Giuseppe Ungaretti – amava Dylan Thomas e specialmente Emily Dickinson: ricordo che al telefono era solito citarmene a memoria i versi, in inglese, facendomi rimediare delle figuracce!”.

La sua poesia si è evoluta nel tempo?

“Un’evoluzione c’è stata. Nelle sue prime prove (“Il cuore zoppo” del 1955, “Povera Juliet e altre poesie” del 1965, “Il tautofono” del 1969), Giuliani era molto vicino alla poesia pura: piena magari di riferimenti sociali però rigorosa, caratterizzata da un’intensa ricerca linguistica e lessicale. Gli ultimi testi (“Ebbrezza di placamenti” del 1993 e “Poetrix Bazaar”) oscillano invece tra un “lasciatemi divertire” piuttosto beffardo, un po’ alla Palazzeschi, e la ricerca di un taglio più filosofico. Però il “lasciatemi divertire” rimane secondo me prevalente”.

Che cosa rimarrà di tutta la sua produzione?

“Giuliani è già nella storia della letteratura italiana, e non solo della poesia: anche se sono sicuro che verrà ricordato specialmente come poeta. La partecipazione ai “novissimi” e al “Gruppo 63” gli valgono come un’assicurazione sulla fortuna critica, perché nessuna antologia degna di questo nome potrà ignorare questo passaggio. Anche Mauri – in un passaggio del suo articolo su “Repubblica” – ammette che “I novissimi” sono stati una bibbia, un punto di riferimento del ‘900 per quanto riguarda la poesia: e non solo in Italia, visto che il libro è stato tradotto negli Stati Uniti. La parte più caduca è invece quella degli articoli critici, delle recensioni: ma è inevitabile, perché – venuto meno il richiamo dell’attualità – questo genere di produzione interessa quasi soltanto lo studioso...”.

Come è arrivato al Premio Bergamo?

“L’ho chiamato io, proponendogli di far parte del comitato scientifico insieme con Manganelli, con Pontiggia e con me. Ha accettato subito, di buon grado, e ne è uscita una cosa interessante perché fin dalla prima edizione, nel 1985, avevamo formato una giuria di persone che avevano poco o niente a che spartire con le beghe dei premi letterari. Poter dire “in giuria c’è anche Giuliani” ha aperto al Premio di Narrativa molte porte.
Lui ha sempre partecipato con entusiasmo, e nel corso degli anni ha segnalato come finalisti autori come Roberto Pazzi, Ermanno Cavazzoni, Michele Mari, Marin Mincu, Santo Piazzese: che non solo hanno poi vinto il Premio Bergamo, ma si sono affermati nel panorama nazionale per significato e originalità. Del resto, Giuliani era il critico più prestigioso di “Repubblica” e tutti i testi importanti passavano tra le sue mani. Gli bastava “annusarli” per capirne il valore.
Quando si trattava di scegliere la cinquina, tra noi iniziavano lunghe telefonate nel corso delle quali si passavano in rassegna i possibili candidati. Lui manteneva sempre un certo distacco “accademico”, limitandosi a indicare uno o più titoli preferiti. Per esempio non telefonava mai al prescelto: ero magari io a fargli presente che era stato proposto da Giuliani. E lui: “Ah Giuliani, che bello, che onore...”.

Ma Giuliani era più poeta o più critico?

“Se vogliamo metterla così, con un’alternativa secca, era più poeta. Aveva però anche quella grandissima cultura che gli permetteva di spaziare nella filosofia e nella prosa, unita a un senso critico formidabile. Le sue recensioni su “Repubblica” erano veri e propri saggi che occupavano anche due pagine, ed erano sempre molto “sofferte”. Quando doveva scrivere un articolo importante si chiudeva in casa per giorni a studiare; era nervosissimo, continuava a girare attorno al tavolo finche finalmente non si sedeva e lo “buttava giù”. Ecco perché Giuliani non pubblicava molto. Per lui scrivere era faticosissimo, e tutto quello che pubblicava – torniamo al discorso della “progettazione” – era ponderato meticolosamente. Un grande perfezionista, che non si concedeva e non sopportava errori.
Giuliani ha insegnato a lungo storia della letteratura moderna e contemporanea all’Università di Chieti e posso assicurare che – nonostante l’impressione un po’ svagata che poteva dare – era un professore puntuale e rigoroso. Non è mai stato un vero e proprio “caposcuola”, forse perché non gli interessava allevare una nidiata di allievi devoti e ossequiosi. Però è stato proprio lui a incoraggiarmi a cimentarmi come critico, e ogni volta che usciva un mio articolo sul “Corriere” telefonava per discutere i miei giudizi e le mie posizioni: “Bene bene, però qui avresti potuto...”. Era contento dei miei progressi, mi seguiva da vicino, e lo considero veramente il mio maestro nel senso classico della parola”.
Dalla pila sul tavolino Klobas prende “Ebbrezza di placamenti” e ne scorre qualche pagina sottolineando la leggerezza della vena poetica di Giuliani, la sua capacità di alternare con equilibrio delicatezza e invettiva. “Provava grande piacere – ricorda – nell’imbastire vertiginosi giochi linguistici e soprattutto nel creare neologismi. A volte – continua Klobas – inventava lì per lì parole che poi mi “regalava” per telefono e io naturalmente annotavo. Per esempio “spallidire”: secondo me è bellissima, perché non è il verbo di uno che diventa pallido e basta, ma di qualcuno che perde colore e consistenza, impalpabilmente, prima di sparire”.

Alberto Pesenti Palvis

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