sabato 19 giugno 2010

Nasce il Gruppo 63

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ALFREDO GIULIANI
Nasce il Gruppo 63 Pochi sanno che furono i musicisti del festival della nuova musica di Palermo a voler invitare gli scrittori. E pensarono subito ai collaboratori del Verri.

Autunno del 900

Autunno del Novecento: cronache di letteratura - sfoglia


Alfredo Giuliani - 1984 - Italian literature - 248 pagine
Savinio musicista aveva "paura" della musica, perché la musica è una ... Mi par di sentire il mio amico Franco Evangelisti, ottimo compositore che da un bel...

Sulla poesia

venerdì 18 giugno 2010

Gli spazi bianchi

RESURREZIONE DOPO LA PIOGGIA
di Alfredo Giuliani

Fu nella calma resurrezione dopo la pioggia
l’asfalto rifletteva tutte le nostre macchie
un lungo addio volò come un acrobata
dalla piazza al monte
e l’attimo sparì di volto in volto
s’accesero i fanali e si levò la buia torre
contro la nostra debolezza
i secoli non ci hanno disfatti.






a cura di Laura Fasciani editor Orazio Converso

venerdì 11 giugno 2010

i libri di Alfredo Giuliani

Giuliani a lezione legge Savinio da La casa ispirata.


estratti mp3 dalle lezioni di Alfredo Giuliani

SUMMER SCHOOL 2010 - Alfredo Giuliani DAMS 1992 Bologna
a cura di Laura Fasciani editor Orazio Converso
installazione Sabina Fiorenzi

il sincromista

mercoledì 9 giugno 2010

Le traduzioni di Alfredo Giuliani

Schede Biografiche

1.


Marchigiano, di madre picena e padre pesarese, dall'età di sei anni vive a Roma, dove s'è laureato in filosofia nel 1949 con una tesi su Carlo Michelstaedter (il nostro esistenzialista ante litteram, morto suicida per amore dell'essere). Da Michelstaedter impara la morale delle favole filosofiche e letterarie: "Abituarsi a una parola è come prendere un vizio". A quindici anni aveva scoperto fortunosamente Rimbaud in fondo a vecchio baule: i Poemi in prosa tradotti da Oreste Ferrari (un'edizione Sonzogno del 1919). Forse questa lettura ha segnato più di ogni altra il suo magro destino. Quale choc venire a sapere che quei poemi scritti da un ventenne risalivano al 1873-'74 in un misterioso clima chiamato Simbolismo! Così, di là dalla scuola, si aprivano all'esplorazione esaltanti orizzonti. La poesia gli sembrò far parte del mondo del pensiero, o almeno della sensibilità pensante. Ma intanto arriva la seconda guerra mondiale. Fino ai diciannove-venti anni non tenta neppure di scrivere. E appena comincia si sente inadeguato e immaturo. S'inoltra allora per qualche anno in una accanita e divorante pazienza. Coltiva il talento critico che avverte di possedere, un talento reso felicemente impuro dalla tremenda voglia di rischiare tutto sulle scelte della poesia. Evita deliberatamente di studiare letteratura all'università, proprio per sentirsi del tutto libero di "errare" e appassionarsi ai problemi della scrittura. Legge Kierkegaard, Kant, Nietzsche, Jaspers, Husserl prima di Freud, Jung, Fenichel, Musatti. Nel 1950 s'azzarda a compiere un'autoanalisi e si proietta nelle angosce infantili portando a galla qualche ingombrante vissuto rimosso (scena primaria compresa). Dopo questa salutare esperienza gli succede di non buttare più via i versi che viene scrivendo. Il suo primo libretto Il cuore zoppo, uscito nel 1955 con la benedizione di Luciano Anceschi, è appunto un riacquisto dell'infanzia e una promessa di conservarla maturando ("Sempre verrò/per riempire del mio cuore la spina vuota"...). Nell'inverno del 1956 nasce la rivista "Il Verri" diretta da Anceschi. Giuliani vi tiene per alcuni anni la rubrica di critica della poesia, e vi pubblica di tanto in tanto i suoi versi. La ricognizione critica, condotta con una certa allegria polemica, e gli esperimenti di scrittura, nonché i fitti scambi con altri poeti rivolti all'innovazione, portano direttamente all'antologia I novissimi (1961), della quale Giuliani è responsabile (tranne del titolo che fu consigliato da Sanguineti). Più o meno da quel momento corre in giro la formula "neo-avanguardia" (stesso peso semantico del romanesco "Anvedi questi"), mai sconfessata e mai presa troppo sul serio dai portatori sani del virus. Insieme con Balestrini, Filippini, Eco, Valerio Riva e tutti gli altri che sapete, inventa un gruppo che non è mai esistito e che ha fatto parlare di sé, il Gruppo 63. Alla ideazione di questo rumoroso fantasma contribuirono anche amici compositori, a cominciare da Luigi Nono. Tra il '61 e il '65 si dedica anche alla poesia "visiva" e compone collages in collaborazione con i pittori Franco Nonis, Gastone Novelli, Toti Scialoja. Nel 1965 pubblica da Scheiwiller il primo atto di un grottesco per musica, Pelle d'asino, scritto a due mani con Elio Pagliarani in perfetta letizia. Nel 1965 la raccolta Povera Juliet e altre poesia (Feltrinelli) è presentata al pubblico romano da Giuseppe Ungaretti con parole attentissime e toccanti (il testo di Ungaretti è incluso nel "meridiano" di Mondadori Saggi e interventi).

Tutte le poesie, edite e inedite, scritte tra il 1950 e il 1984, sono raccolte nel volume Versi e non versi (Feltrinelli) 1986). Oltre a parecchie prefazioni, Giuliani ha finora pubblicato tre volumi di saggi - Immagini e maniere, Feltrinelli 1965, Le droghe di Marsiglia, Adelphi 1977, Autunno del Novecento, Feltrinelli 1984- e altri ne ha in preparazione.

Tre recite su commissione (Lubrina 1990) raccoglie operette dialogiche scritte per la radio e la televisione.

Per sapere ciò che l'autore pensa di sé, egli consiglia di leggere ciò che ha scritto per la quarta di copertina di Versi e non versi. Non può ripetersi e non sa dire altro.


2.


Marchigiano, di madre picena e padre pesarese, dall'età di sei anni vive a Roma, dove s'è laureato in filosofia nel 1949 con una tesi su Carlo Michelstaedter. In seguito s'è dedicato pressoché esclusivamente allo studio della letteratura, alla poesia e alla richerca sulle poetiche. Il suo primo librettodi versi Il cuore zoppo esce nel 1955 nella collana “Oggetto e simbolo” diretta da Luciano Anceschi. Collabora fin dalla fondazione (1956) alla rivista di Anceschi "Il Verri" ; tra l'altro vi tiene regolarmente per alcuni anni la rubrica di critica della poesia. Da questa esplorazione, condotta con una certa allegria polemica, dagli esperimenti di scrittura, nonché dai fitti scambi con altri poeti rivolti all'innovazione nasce l'idea dell'antologia I novissimi (1961), che con una prefazione aggiunta all'introduzione del 1961, è stata più volte ristampata da Einaudi a partire dal 1965 (attualmente esaurita). Nel 1965 pubblica presso Feltrinelli la raccolta di articoli e saggi Immagini e maniere. Nello stesso anno , sempre presso Feltrinelli, pubblica Povera Juliet e altre poesie.

Intanto, insieme con gli amici del “Verri” (Balestrini, Barilli, Eco, Filippini, Sanguineti, Angelo Guglielmi) e con l'appoggio esterno di Valerio Riva e tutti gli altri che sapete, inventa un gruppo che non è mai esistito e che ha fatto parlare di sé, il Gruppo 63. Alla ideazione del rumoroso fantasma contribuiscono anche amici compositori e pittori (la prima apparizione avviene infatti al Festival internazionale Nuova Musica di Palermo nel 1963). Tra il '61 e il '65 compone collages di parole e segni in collaborazione con i pittori Franco Nonnis, Gastone Novelli, Toti Scialoja. Nel 1965 pubblica da Scheiwiller un grottesco per musica, Pelle d'asino, scritto insieme con Elio Pagliarani in perfetta letizia.

Nel 1968, lavorando con Jacqueline Risset, cura per Einaudi l'antologia Poeti di “Tel Quel”. L'anno successivo pubblica da Feltrinelli il suo poemetto più ardito, Il tautofono, che trae oracoli lirico-grotteschi dalla dissoluzione psicologica e formale.

Del 1970 è Gerusalemme liberata di Torquato Tasso raccontata da Alfredo Giuliani, con una scelta del poema (Einaudi).

Nel 1973 pubblica presso Adelphi Il giovane Max, racconto per illuminazioni, sberleffi e frantumi.

Nel 1975 esce presso Feltrinelli in due volumetti economici l'Antologia della poesia italiana dalle origini al Trecento.

Il titolo della raccolta di saggi e articoli Le droghe di Marsiglia (Adelphi, 1977) contiene tra l'altro una dose di ironia e una dose di di malinconia: a Marsiglia, Walter Benjamin fumò per la prima volta hascisch e Sade somministrò confetti afrodisiaci di cantaride a prostitute (che poi lo denunciarono per sevizie).

Dopo aver collaborato per qualche tempo al quotidiano “Il Messagero”, diventa nel 1976 critico letterario del quotidiano “la Repubblica”.

Nel 1984 appare da Feltrinelli Autunno del Novecento, scelta di articoli, saggi, relazioni a convegni su scrittori del Novecento italiano. Lo stesso editore pubblica nel 1986 il volume Versi e nonversi, che raccoglie le poesie edite e inedite scritte tra il 1950 e il 1984.

sono raccolte nel volume (Feltrinelli) 1986). Oltre a parecchie prefazioni, Giuliani ha finora pubblicato tre volumi di saggi - Immagini e maniere, Feltrinelli 1965, Le droghe di Marsiglia, Adelphi 1977, Autunno del Novecento, Feltrinelli 1984- e altri ne ha in preparazione.

Tre recite su commissione (Lubrina 1990) include tre operette dialogiche concepite per la radio e la televisione.

Dal 1980 è professore ordinario di Storia della letteratura moderna e contemporanea presso la Facoltà di Lettere e filosofia dell'Università degli studi di Chieti.


3

Marchigiano, di madre picena e padre pesarese, dall'età di sei anni vive a Roma, dove s'è laureato in filosofia nel 1949 con una tesi su Carlo Michelstaedter. In seguito s'è dedicato pressoché esclusivamente allo studio della letteratura, alla poesia e alla richerca sulle poetiche moderne e contemporanee. Ha collaborato fin dalla fondazione (1956) alla rivista "Il Verri" di Luciano Anceschi, e qui per diversi anni ha tenuto la rubrica di critica della poesia. Ha ideato e curato l'antologia di tendenza I novissimi (Rusconi e Paolazzi, 1961), che segna il momento più innovativo e discusso della poesia italiana dopo la seconda guerra mondiale. L'antologia, con una prefazione-manifesto aggiunta all'introduzione del 1961, è stata più volte ristampata da Einaudi a partire dal 1965 (attualmente esaurita).

Nel 1965 hapubblicato presso Feltrinelli la raccolta di saggi Immagini e maniere, che un contributo personale alla definizione delle maniere di poesia e delle idee di poetica praticate nel decennio precedente (esaurimento dell'ermetismo, neorealismo, neoavanguardia, questioni di metrica, discussioni su ideologia e mestiere, influssi di poeti stranieri).

Nel 1968 in collaborazione con Jacqueline Risset, cura per Einaudi l'antologia Poeti di “Tel Quel”. Nella prefazione si ipotizza che la nuova retorica prodotta dalla cultura semiologica dominante conduca a una poetica del segno, ormai svincolata da tutte le poetiche moderniste della prima metà del Novecento.

L'anno successivo pubblica da Feltrinelli il suo poemetto più ardito, Il tautofono, che trae oracoli lirico-grotteschi dalla dissoluzione psicologica e formale.

Nel 1970 esce da Einaudi Gerusalemme liberata di Torquato Tasso raccontata da Alfredo Giuliani, con una scelta del poema.

Nel 1975 è Antologia della poesia italiana dalle origini al Trecento (Feltrinelli). Questi dun volumetti, di oltre 300 pagine ognuno, sono stati concepiti per avvicinare alla poesia dei classici i lettori comuni, fuori da ogni obblico scolastico; ciò non toglie che possano servire anche allo studio. E non toglie che contengano qualche interpretazione non proprio vulgata. Di cui non si sono accorti gli “specialisti” prergiudicanti l'antologia come meramente divulgativa.


Le droghe di Marsiglia è una “grossa” (nel senso di ingombrante: 410 pagine) raccolta di saggi apparsa da Adelphi nel 1977. Nel titolo c'è una dose di ironia e una dose di di malinconia: a Marsiglia, Walter Benjamin fumava hascisch e Sade somministrò confetti afrodisiaci a prostitute (che poi lo denunciarono per sevizie). Nella trasformazione dell'esperienza provocata dalle “droghe” c'è una allegoria della letteratura? Nel libro, tra tante altre cose, c'è un'analisi dei frammenti di Benjamin Sull' hascisch e c'è qualche argomentazione sulla enciclopedia dell'innominabile progettata da Sade (l'episodio di Marsiglia è interpretato come l'apparizione in qualche modo pubblica del sadomasochismo, cosa di cui ovviamente i giudici non tennero affatto conto).

Nel 1984 è apparso da Feltrinelli Autunno del Novecento (scelta di articoli, saggi, relazioni a convegni su scrittori del Novecento italiano).


Le conferenze Gioco e destino. I segni del sesso nella poesia del Belli è pubblicata nel II quaderno Letture belliane. I sonetti del Belli (Bulzoni, 1982).

Paolo Ruffilli per Alfredo Giuliani

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Francesco Giuliani

Nella vicenda letteraria italiana, sono i Novissimi che si sforzano di decentrare l'io poetico (l'io tronfio e delirante di vecchia memoria), attraverso l'esercizio di un'intelligenza non mistificatoria. Un'intelligenza lucida, che non rinuncia affatto a perseguire la letteratura, ma pretende di farlo in un modo intellettualmente accettabile; riportando sulla scena della letteratura un'esigenza etica che si era usurata e consumata nel dopoguerra e parlando addirittura di necessità del fare poesia, nella volontà di rifondare una civiltà letteraria come quella italiana, impastata di malintesi e di cattiva coscienza. Che poi questo ambizioso progetto sia riuscito a tutti, è un altro conto; ma, certo, si è trattato di un progetto di grande rilievo e di notevolissimo livello. E l'anima intelligente ne è stata, senza dubbio, Alfredo Giuliani. Proprio perché, in lui, intelligenza e talento si bilanciano in quella composizione di forze che, come diceva Barthes, è in grado di dare forma letteraria all'idea. E' un fatto che non si può non sottolineare, parlando della "scrittura" di Giuliani: una scrittura sempre letteraria, anche quando ha le forme di un saggio o di una recensione. Campo di una letteratura che nasce dalla letteratura stessa, viaggio attraverso i percorsi della parola. I saggi di Giuliani, Le droghe dì Marsiglia e Autunno del Novecento, sono specchio delle poetiche e poetica essi stessi. All'insegna di quel vincolo di necessità della letteratura di cui si diceva.

C'è, nella scrittura di Giuliani, sempre "un dialogo ritmico tra le parole"; parole che pensano se stesse e che si attraggono e si respingono. E questa straordinaria virtù, naturalmente, appare come evidenziata nella sua poesia. Per la potenzialità stessa della poesia; perché, come riconosce nella sua consapevolezza critica lo stesso Giuliani, "la poesia sa di poter concentrare in sé, virtualmente, una significanza profonda e anche una possibilità di gioco con i colori e con il corpo delle parole".

La ricerca verbale, nello spazio particolare della poesia, si svolge tanto in senso verticale, nella frammentizzazione analitica della parola, quanto in senso orizzontale, nell'estensione del tratto linguistico. Due sensi di marcia secondo i quali Giuliani ha proceduto, in questi anni, contemporaneamente. Tra le ultimissime raccolte Poetrix Bazar è la prova massima e ricapitolativa, in un certo senso la summa dell'opera poetica di Giuliani, e non inganni il limitato numero delle poesie lì raccolte, perché si tratta in realtà della miniaturizzazione di un vasto e lungo lavoro condotto dall’autore sul verso. Anche nei testi più recenti, Giuliani appare uniformarsi a quel fortissimo senso della forma o dell'efficacia formale della poesia che è uno degli assi portanti della sua formazione estetica o, se si preferisce, della sua poetica.

Giuliani, tra i più tenaci e rigorosi sperimentatori di circuiti inediti del discorso poetico è tra i più profondi indagatori della scrittura poetica e testimonia nei versi di Poetrix Bazaar un ulteriore passo in avanti, nella definizione puntuale della "sostanza impossibile" attraverso la quale il poeta si determina come soggetto parlante/scrivente. Il godimento della lingua che struttura la lingua stessa, nello specifico del "maneggiamento poetico" delle parole, è uno dei riferimenti dell'esperienza di Giuliani e, forse, la cifra stessa della sua scrittura poetica. Tanto nella direttrice delineata in verticale, secondo l'altalenante successione di consapevolezza-inconsapevolezza, attività-passività, del soggetto parlante/parlato; tanto nella direttrice delineata in orizzontale, sulla scia dilagante della scrittura agente/agita.

"Una poesia è vitale", ha scritto Giuliani, "quando ci spinge oltre i propri inevitabili limiti, quando cioè le cose che hanno ispirato le sue parole ci inducono il senso di altre cose e di altre parole, provocando il nostro intervento; si deve poter profittare di una poesia come di un incontro un po' fuori dell'ordinario". Ecco, la stratificazione della poesia; ecco, i fondali profondi della poesia; ecco, la successione dei piani, la linea a spirale.

Raramente, c'è una piena corrispondenza tra gli assunti teorici e le prove effettuali come accade per Giuliani. I risultati sulla pagina, divaricati nell'architettura dello spartito musicale, sono sicuramente tra i più significativi della poesia di questi anni. Costituiscono un punto di riferimento per i più giovani, una somma di esperienze decisive da cui i più giovani hanno imparato molto. Nei suoi libri di poesia, a dispiegarsi sulle pagine sono partiture musicali (e non solo, per esempio, quelle della prima sezione della raccolta Poetrix Bazaar), secondo una variazione costante che dal tono angosciato slitta a quello divertente-divertito, alternando quadri compositi fino al polittico e singole tavole minime fino alla tabella, e mescolando dramma e farsa, tragico e comico, da “Pensando a Emily” allo scherzo delle sorelle agonine, per arrivare allo sciabordante scioglilingua finale “Caro mercato di paese antico”. Ma, si sa, per Giuliani l'anarchia del nonsenso è stimolo creativo, e ha continuato ad esserlo. "L'insensatezza", ha scritto, "è un mero contenuto del nostro mondo: qualcuno se ne servirà per manifestare la propria insensibilità o un comodo cinismo; per altri sarà l'unica possibile e sofferta soluzione stilistica. Il non-senso è divenuto un materiale iconico, come le madonne e gli angeli delle antiche Annunciazioni".

In particolare, testi come le stesse Partiture, oltre a testimoniare l'inarrestabile slittamento del linguaggio al grado dell'insensatezza, sono le forme che pure dichiarano quella sorta di rifondazione della poesia di cui Giuliani si fa portavoce. Prima di tutto come "mimesi critica della schizofrenia universale, rispecchiamento e contestazione di uno stato sociale e immaginativo disgregato". Ma anche, e direi soprattutto, come reinvenzione di un'identità formale della poesia. Nella specie di una ricomposta "scatola sonora", capace di nuovo di legare in un'orchestrazione le sue armonie e disarmonie; in una musica dodecafonica, frutto di una sapiente regia metrica e tonale. E non si può certo trascurare il patrimonio specificamente metrico della poesia di Giuliani: nella ripresa di forme tradizionali (come la canzonetta o il madrigale) dentro la struttura polifonica di un nuovo libretto d'opera che ha messo a frutto l'energia ritmica della tradizione e l'armonia ardita delle avanguardie.

Volendo poi parlare dei pezzi forti dell’ultima produzione, sono a rispecchiamento quasi di contrasto Il badante di Eraclito (nel segno della complessità architettonica) e Poesie per il mio cane (nel segno della semplicità più lineare), si può dire che testimoniano oltre alla grande umanità di Giuliani la sua formidabile attrazione per la musica. Il suo orecchio di musicista fa preferire all’autore una musica di suoni nuovi, di ritmi che individuano anche le dissonanze, la possibilità di piegare gli strumenti a suoni imprevisti e a forzare la gamma. Uno dei problemi della musica contemporanea è stato l'esaurimento delle combinazioni. Si potrebbe dire la stessa cosa della poesia.

Paolo Ruffilli

Corpus. Frammenti di autobiografia


Appunti di lettura: Stefano Guglielmin
Corpus. Frammenti di autobiografia
per Alfredo Giuliani

Lucio Klobas

Bergamo, 26 settembre 2007

Lucio Klobas ricorda il poeta e critico Alfredo Giuliani, da poco scomparso
LA MORTE “NON L’HA ANCORA CONVINTO”

Nel salotto di casa Klobas, i libri di Alfredo Giuliani formano una piccola montagna sul tavolino. Lucio Klobas è lo scrittore istriano che coinvolse il poeta e critico romano, nato a Mombaroccio (PU) nel 1924 e scomparso lo scorso 20 agosto, nell’avventura del Premio Nazionale di Narrativa Bergamo.
Tutti i volumi accatastati – le raccolte di poesia dagli anni ’60 fino all’ultima “Poetrix Bazaar” (2003) e all’antologia “Furia serena” (2004); il romanzo sui generis “Il giovane Max” (1972); “Le droghe di Marsiglia” (1977), uno dei suoi volumi di saggi – portano una dedica originale, a volte bizzarra. Sul frontespizio della storica antologia “I novissimi: poesie per gli anni ‘60” (della quale – oltre a comparire come autore con Nanni Balestrini, Elio Pagliarani, Antonio Porta ed Edoardo Sanguineti – Giuliani fu curatore) si legge la data fatidica del 1 gennaio 2001 e una scritta: “A Lucio Klobas, dallo spazio. Bologna, Costellazione dei Pesci”.
“Rileggerla ora mette i brividi” – commenta il destinatario. “Giuliani è stato prima di tutto un amico e un maestro. E adesso vorrei ricordarlo usando due sue frasi. Al verso citato da Paolo Mauri nell’articolo del 21 agosto su “Repubblica” – “Non mi piace molto di niente” – aggiungo un pensiero da “Il giovane Max”, che da solo forma un intero capitolo: “A me la morte non m’ha ancora convinto”....

Allora è veritiera quell’immagine di “moschettiere della giocosa avanguardia”, che lo stesso Giuliani coltivava?

“A lui piaceva l’idea del poeta-clown che con il sorriso sulle labbra ti dice cose assai pungenti. Però – fin dai tempi de “I novissimi” e dell’esperienza immediatamente successiva, il “Gruppo 63” – ha sempre considerato l’avanguardia come un gioco molto serio.
Molti misero allora in dubbio la genuinità di questa “cricca romana” (che Giuliani formava con Alberto Arbasino, Angelo Guglielmi, Luigi Malerba, Giorgio Manganelli e parecchi altri), venuta dopo la grande avanguardia europea di Ezra Pound e Thomas Eliot, e che a sua volta sembrava prendere a modello i tedeschi – Heinrich Böll, Günter Grass e altri – di “Gruppo 47”.
Ma il “gioco” non era fine a se stesso: doveva portare a un rinnovamento del linguaggio sulla base degli apporti della psicoanalisi, dell’antropologia, delle scienze in genere; e a un salutare ridimensionamento dell’io poetico. Basta insomma con i vari “io ti amo”, “io vorrei...”; basta con il soggettivismo arbitrario! Non c’era più un “io” che si installava al centro del mondo, ma un universo linguistico che di volta in volta poteva essere plasmato e coniugato in vari modi. E Giuliani era il teorico del gruppo, il più preparato anche a livello filosofico”.

Ma si è trattato di un movimento con tutti i crismi?

“La sostanza c’era tutta, tanto che nel passaggio dai “novissimi” al “Gruppo 63” uscirono allo scoperto le due anime del gruppo: una, per così dire, linguistica e una più politica. Giuliani abbracciò subito e senza esitazioni la “corrente linguistica”: sosteneva che la società andava sì rigenerata, ma dall’interno, mediante un uso particolarmente incisivo – violento, sferzante se necessario – della scrittura. Anche Guglielmi era dalla sua parte, mentre i più estremisti – Balestrini, Renato Barilli, Sanguineti – sostenevano invece la necessità di un impegno politico diretto.
Intorno al ’68 lo scontro si fece molto aspro. Giuliani lasciò la direzione di “Quindici”, il periodico Feltrinelli che faceva riferimento al gruppo: e che cessò le pubblicazioni dopo un breve tentativo di continuare come rivista politica”.

Che idea aveva Giuliani della poesia?

“Ricordo la risposta che diede anni fa nel corso di una serata in suo onore, quando un tale dal pubblico gli chiese – più o meno – “come nasceva una poesia”. Era una domanda colossale, impossibile da rintuzzare su due piedi! Senza scomporsi, Giuliani rispose che – prima di “buttar giù” parole più o meno a caso (penso a Dylan Thomas, che apriva il dizionario, faceva cadere la penna su una voce e da quella cominciava...) – la poesia andava “progettata” esattamente come si progettano una casa o un’automobile. In partenza dovevi avere un’idea – magari minima – un nucleo linguistico, un’emozione, una percezione particolare, e da lì costruire un percorso. Anche “a freddo” – sosteneva – si potevano scrivere cose alte, anzi per certi versi era meglio: solo che dovevano uscire talmente bene da non sembrare scritte a freddo. L’ispirazione, la famosa “scintilla”? Per lui erano sciocchezze”.

Una concezione molto legata all’“avanguardia” e forse anche ai tempi...

“Anche Giuseppe Pontiggia la pensava così, quando – parlando del suo “metodo di scrittura” – partiva dal famoso detto “cavare un ragno dal buco”. Nel senso però che il buco era per lui l’inizio di tutto: come a dire che “hai già il buco”, che un contenitore per quanto minuscolo c’è, e adesso tocca a te lavorarci intorno, estrarre parola per parola.
Però un punto di partenza bisogna trovarlo! Possiamo ridimensionarlo, arretrarlo il più possibile: però quel momento – lo sanno bene tutti gli scrittori – è imprevedibile, incontrollabile, è la scintilla che arriva inattesa dopo giorni interi passati su una pagina o su un problema. Il momento magico, creativo, vale per il poeta come per lo scienziato: è sempre un’intuizione che non controlli. Poi, se hai esperienza e mestiere, impari a riconoscerla e allora ha meno probabilità di sfuggirti”.

Quali erano i riferimenti letterari di Giuliani?

“Erano numerosi, ma si restringono molto se ci si limita a coloro per i quali – come per lui – il linguaggio era il centro della creazione artistica. Sotto questo aspetto, l’ideale di Giuliani non poteva che essere un autore come Carlo Emilio Gadda. Gli metterei a fianco Alfred Jarry, inventore dell’epopea di Ubu e di quella fortunata disciplina pseudoscientifica che si chiama “patafisica”. In poesia – oltre a Eugenio Montale e a Giuseppe Ungaretti – amava Dylan Thomas e specialmente Emily Dickinson: ricordo che al telefono era solito citarmene a memoria i versi, in inglese, facendomi rimediare delle figuracce!”.

La sua poesia si è evoluta nel tempo?

“Un’evoluzione c’è stata. Nelle sue prime prove (“Il cuore zoppo” del 1955, “Povera Juliet e altre poesie” del 1965, “Il tautofono” del 1969), Giuliani era molto vicino alla poesia pura: piena magari di riferimenti sociali però rigorosa, caratterizzata da un’intensa ricerca linguistica e lessicale. Gli ultimi testi (“Ebbrezza di placamenti” del 1993 e “Poetrix Bazaar”) oscillano invece tra un “lasciatemi divertire” piuttosto beffardo, un po’ alla Palazzeschi, e la ricerca di un taglio più filosofico. Però il “lasciatemi divertire” rimane secondo me prevalente”.

Che cosa rimarrà di tutta la sua produzione?

“Giuliani è già nella storia della letteratura italiana, e non solo della poesia: anche se sono sicuro che verrà ricordato specialmente come poeta. La partecipazione ai “novissimi” e al “Gruppo 63” gli valgono come un’assicurazione sulla fortuna critica, perché nessuna antologia degna di questo nome potrà ignorare questo passaggio. Anche Mauri – in un passaggio del suo articolo su “Repubblica” – ammette che “I novissimi” sono stati una bibbia, un punto di riferimento del ‘900 per quanto riguarda la poesia: e non solo in Italia, visto che il libro è stato tradotto negli Stati Uniti. La parte più caduca è invece quella degli articoli critici, delle recensioni: ma è inevitabile, perché – venuto meno il richiamo dell’attualità – questo genere di produzione interessa quasi soltanto lo studioso...”.

Come è arrivato al Premio Bergamo?

“L’ho chiamato io, proponendogli di far parte del comitato scientifico insieme con Manganelli, con Pontiggia e con me. Ha accettato subito, di buon grado, e ne è uscita una cosa interessante perché fin dalla prima edizione, nel 1985, avevamo formato una giuria di persone che avevano poco o niente a che spartire con le beghe dei premi letterari. Poter dire “in giuria c’è anche Giuliani” ha aperto al Premio di Narrativa molte porte.
Lui ha sempre partecipato con entusiasmo, e nel corso degli anni ha segnalato come finalisti autori come Roberto Pazzi, Ermanno Cavazzoni, Michele Mari, Marin Mincu, Santo Piazzese: che non solo hanno poi vinto il Premio Bergamo, ma si sono affermati nel panorama nazionale per significato e originalità. Del resto, Giuliani era il critico più prestigioso di “Repubblica” e tutti i testi importanti passavano tra le sue mani. Gli bastava “annusarli” per capirne il valore.
Quando si trattava di scegliere la cinquina, tra noi iniziavano lunghe telefonate nel corso delle quali si passavano in rassegna i possibili candidati. Lui manteneva sempre un certo distacco “accademico”, limitandosi a indicare uno o più titoli preferiti. Per esempio non telefonava mai al prescelto: ero magari io a fargli presente che era stato proposto da Giuliani. E lui: “Ah Giuliani, che bello, che onore...”.

Ma Giuliani era più poeta o più critico?

“Se vogliamo metterla così, con un’alternativa secca, era più poeta. Aveva però anche quella grandissima cultura che gli permetteva di spaziare nella filosofia e nella prosa, unita a un senso critico formidabile. Le sue recensioni su “Repubblica” erano veri e propri saggi che occupavano anche due pagine, ed erano sempre molto “sofferte”. Quando doveva scrivere un articolo importante si chiudeva in casa per giorni a studiare; era nervosissimo, continuava a girare attorno al tavolo finche finalmente non si sedeva e lo “buttava giù”. Ecco perché Giuliani non pubblicava molto. Per lui scrivere era faticosissimo, e tutto quello che pubblicava – torniamo al discorso della “progettazione” – era ponderato meticolosamente. Un grande perfezionista, che non si concedeva e non sopportava errori.
Giuliani ha insegnato a lungo storia della letteratura moderna e contemporanea all’Università di Chieti e posso assicurare che – nonostante l’impressione un po’ svagata che poteva dare – era un professore puntuale e rigoroso. Non è mai stato un vero e proprio “caposcuola”, forse perché non gli interessava allevare una nidiata di allievi devoti e ossequiosi. Però è stato proprio lui a incoraggiarmi a cimentarmi come critico, e ogni volta che usciva un mio articolo sul “Corriere” telefonava per discutere i miei giudizi e le mie posizioni: “Bene bene, però qui avresti potuto...”. Era contento dei miei progressi, mi seguiva da vicino, e lo considero veramente il mio maestro nel senso classico della parola”.
Dalla pila sul tavolino Klobas prende “Ebbrezza di placamenti” e ne scorre qualche pagina sottolineando la leggerezza della vena poetica di Giuliani, la sua capacità di alternare con equilibrio delicatezza e invettiva. “Provava grande piacere – ricorda – nell’imbastire vertiginosi giochi linguistici e soprattutto nel creare neologismi. A volte – continua Klobas – inventava lì per lì parole che poi mi “regalava” per telefono e io naturalmente annotavo. Per esempio “spallidire”: secondo me è bellissima, perché non è il verbo di uno che diventa pallido e basta, ma di qualcuno che perde colore e consistenza, impalpabilmente, prima di sparire”.

Alberto Pesenti Palvis

Alfredo Giuliani di Paolo Mauri

da La repubblica, Paolo Mauri, 2010
Se adesso, nell´occasione della scomparsa, qualcuno avesse voglia di dire che Sanguineti era stato il teorico principe del Gruppo 63 stia attento: potrebbe incorrere nei rabbuffi di Alfredo Giuliani che già nelle sue Droghe di Marsiglia avvertiva: «La neoavanguardia non ha avuto nessun capo carismatico. Qualcuno, all´esterno, ha creduto di identificarlo in Sanguineti, quanto meno come "capofila". In realtà Sanguineti non "capofilava" un bel niente, anche se aveva il suo bravo prestigio… C´era una specie di collettivo informale, tenuto insieme, più che altro, dalla reciproca convinzione che, a dispetto dei dissensi, si andava tutti contro la Letteratura Costituita».

Le Droghe sono del ‘77. Forse oggi bisognerebbe ripensare cosa vuol dire andare contro la "Letteratura Costituita".

Paolo Mauri in Rai

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"chi l'avrebbe detto"
Nel mese di agosto del 2007 è scomparso Alfredo Giuliani. Nato nel 1924, è stato collaboratore e redattore del «Verri» e ha diretto la rivista «Quindici». Tra le sue opere di poesia: Il cuore zoppo (1955); Povera Juliet e altre poesie (1965); Il tautofono (1969); Chi l'avrebbe detto (1973); Ebbrezza di placamenti (1973); Poetrix Bazaar (2003). Ha pubblicato nel 1972 il romanzo Il giovane Max. I suoi interventi critici sono parzialmente raccolti in Immagini e maniere (1965 e 1996). Ha curato l'antologia I Novissimi, uscita in prima edizione nel 1961. I suoi versi hanno radici che vengono da lontano, da una profondità che attinge, di associazione in associazione, ad una palude fanciullesca e mai addomesticata. Nel 2004 ha ottenuto un grande riconoscimento: la giuria del Premio Lorenzo Montano gli ha conferito il Premio speciale "Opere scelte - Regione Veneto", riconoscendogli l'edizione di una raccolta di testi poetici, selezionati tra le sue pubblicazioni. È così nato il volume Furia serena, pubblicato da Anterem Edizioni. RadiotreSuite ha voluto ricordare Alfredo Giuliani, poeta' con l'aiuto di Paolo Mauri e di Massimo Sannelli.

Orari contrari con Alfredo Giuliani

Orari contrari con Alfredo Giuliani
OraEsatta agosto 2007
Portatemi il tramonto in una tazza” Emily Dickinson

Sono andato molte volte in questi anni con il treno metropolitano da Alfredo Giuliani in cerca d'aiuto, l'ultima per un impegno con l'Università d'insegnare scrittura e farlo da illetterato sporgendomi sulle nuove tecnologie digitali. Avevo adocchiato nella sua bella casa certi collages promettenti e mi dicevo che se a tenerli era Giuliani, di sicuro c'era del buono; se poi era lui l'autore con Novelli e gli altri, allora bisognava proprio che sapessi. Evitando accuratamente di approfondire l'argomento, pregustando gli eventi, mi misi daccordo per andare da lui con la mia camera.

Si arrampicò su una scaletta alquanto precaria e cominciammo dal primo in alto, nell'ingresso, mettendo in allarme Rupert che non era stato avvertito delle riprese - i suoi abbai infatti sono l'incipit, la sigla. Da pretesto il collage, ben presto, si fece fido conduttore ed io seppi a lungo cosa dire agli studenti ad Arcavacata, delle peripezie dell'arte, della sperimentazione e delle tecnologie dell'alfabeto in tempi non sospetti; dalla sua esperienza in Rai, dalla docenza a Bologna al Dams, muovemmo a ritroso per l'esperienza vertiginosa degli anni cinquanta e sessanta alla raccolta di spunti per la composizione e la progettazione di artefatti comunicativi per chi fosse alle prese oggi con l'immensa tavolozza del web e con il nuovo repentino abbassamento della lingua nelle pubblicazioni digitali.

«Non ricordo quando ho scelto la poesia. Da bambino leggevo i libri e i giornali che leggevano tutti i bambini; e forse qualcuno di più: favole, avventure, viaggi. Tra gli undici e i tredici, mi vedo affascinato e immerso, non so proprio perché, nel teatro: Goldoni; Alfieri; Shakespeare (in traduzioni ottocentesche), Metastasio (Didone abbandonata e Attilio Regolo). Dopo i tredici devo aver cominciato con i romanzi (Dickens, Stevenson, Dostoevskji, Dumas). Verso i quattordici divento lettore onnivoro, ricevo in regalo tutti i volumi della collana «I grandi scrittori stranieri» UTET (saranno stati un centinaio) e lì scopro Baudelaire e Shelley (tradotti in prosa). Fu allora, tra i quattordici e i quindici anni; che l'interesse per la poesia prese un certo sopravvento? Può essere, ma non ne sono affatto sicuro. Al ginnasio ebbi per un certo periodo un professore dannunziano. Amavo Leopardi e trovavo D'Annunzio detestabile, anzi repellente. Non sapevo ancora niente della poesia "moderna". Ma ciò che ricordo come un trauma incancellabile è la prima lettura di Rimbaud. Ero sui quindici anni e qualcuno mi dette Una stagione all'inferno e le Illuminazioni tradotte da Oreste Ferrari. Ero incantato, e sconvolto dal venire a sapere che quei poemi in prosa, scritti da un ventenne, risalivano al 1873-74. Stava per scoppiare la seconda guerra mondiale e io, che iniziavo il liceo, avevo messo un piede nella lirica "pura" mentre l'altro correva con gli esametri dell'Odissea (è dal mio maestro di liceo, il giovane Bruno Gentili, che mi venne inoculata la passione per la metrica). Eppure fino ai diciannove, venti anni non tentai di scrivere versi.(..)» (Alfredo Giuliani, LA POESIA È UNA COSA IN PIU', Ebbrezza di placamenti, il Verri" ,n.11-12, 1989)

La sua biografia per affrontare l' insicurezza dei giovani allievi, di chi non può provarsi e finisce col perdersi nell'afasia operosa dell'agire compulsivo studentesco; per me e i miei protetti, dire come usò l'autoanalisi per autorizzarsi da sè alla scrittura e alla poesia; come avesse maturato le scelte dei poeti nuovi e il sodalizio con Anceschi. Cercai con il video e i luoghi della rete che andavamo popolando, non qualcosa da aggiungere in gara col racconto, piuttosto con l'ascolto e le note a margine delle corrispondenze - non un vero e proprio metodo che s'ispirasse al modo di ricercare che poi condusse dai collages e le pieces alle Poesie di teatro, a riportare alla tipografia quel che circolava nell'ambiente, nei media, nelle performances, nei convegni - tecniche, utensili che divenissero strumenti nel procedere della sperimentazione, oggi come allora.

Nei Media Sincronizzati a base testuale di Orfeo, Luigi, Valeria, Daniele, Rosario e via via degli altri, con gli studi per esempio sul paratesto di Ale e Silvia che attivavano il laboratorio a distanza, nelle interfacce mobili e dinamiche di Nicola e Francesco, con i report degli avatar più originali in ascolto e visione, trovammo con Alfredo tracce ed echi bastanti per continuare a vederci e a registrare, tanto che ad un certo punto di decise di studiare per esempio Quindici e magari poi Il cavallo di Troia riviste guida che fornivano le piattaforme ideali della condivisione e del lavoro cooperativo per i gruppi di lavoro in rete.

«Quindici è un giornale fondato sulla fiducia interna, non sulla routine professionistica. Un gruppo di scrittori lo ha inventato dal nulla, e io sono uno di questi. Credevamo di poter fare una cosa che allargasse un poco la nostra udienza, e l'abbiam fatta. Abbiamo avuto successo,più di quanto noi stessi speravamo. Il merito non è mio, né del direttore editoriale. Il merito è della. fiducia reciproca che ha sorretto tutti noi. Io stesso, quale responsabile, non ero che un fiduciario del collettivo. Nessuno mi ha tolto la fiducia, e io la conservo da parte mia per tutti i collaboratori. Dunque perché, «sul più bello», ho deciso di andarmene? È difficile da spiegare, e mi ci proverò. Forse occorrerebbe un lungo discorso, una cronistoria minuziosa. Negli ultimi tempi mi estenuavo, più che a' raccogliere il «materiale», in lotte sempre meno allegre per bloccare le infiltrazioni di materiale oscuro e demagogico. Il mio crescente disagio nasceva dalla sensazione sempre più opprimente di essere entrato, quasi senza accorgermene, neila Ortodossia del Dissenso. Sia chiaro che io sono stato felice di pubblicare nei numeri scorsi certi documenti: le carte rivendicative degli studenti dell'Università di Torino, la teologia della violenza, la protesta dei cittadini di Orgosolo, sono fatti che noi abbiamo portato per primi all'attenzione di una grande cerchia di, lettori, fatti che era giusto parlassero con il loro linguaggio. Ma il materiale di cui è composta una rivista è forse meno importante dell'atmosfera in cui viene proposto. Il passaggio dal documento, o all'argomento, «giusto» al documento, o all'argomento, «facile» avviene in maniera percettibile ma subdola. Comincia il ricatto psicologico della cosa di cui si deve parlare. Il Dissenso diventa una merce che bisogna fornire. Non si ragiona più se non col Dissenso Comune.(..)» (Editoriale, PERCHE' LASCIO LA DIREZIONE DI « QUINDICI » di Alfredo Giuliani)

Non so più come fu che un giorno incorremmo nei dizionari e nei vocabolari e ci fu un'epifania da registrare – fui pronto con il videotelefono: “Tommaseo, alla lettera M, Morte, senti: Passione a cui sottostà il corpo quando l'anima cessa di ravvivarlo, capisci, la mentalità che ci sta sotto? Per questo bacchettone spiritualista, la morte non è un fenomeno ma una passione! Così alla fine quando hai letto la definizione sai cos'è la morte, ma non sai cos'è la vita.”

Poco male che non si faccia lezione ad Arcavacata, e non si risponda sul web alle domande dei “ragazzi”, anche se mi disse lui stesso dopo un pò di ritornare a farlo quando si fosse placato il mio disinganno: il maestro amico dovrà rispondere da molto lontano alle nostre domande, starà a noi raccorciare le distanze, oppure rimetterle e chiamarlo accanto.

«L'ironia non è ironica, spiegò una volta Alberto Savinio ai suoi lettori; diversamente da quanto si crede generalmente, l’ironia e’ seria. Quei temi risibili, nella scrittura di Orari contrari, toccano gli abissi quotidiani del senso e dell'insensatezza. Per convincersene, basta leggere con attenzione i due testi più «teoricí» del libro: Tempo supplementare e Lente deformante.
Il primo potrebbe valere come una irresistibile conferenza sulla lotta contro il tempo. Qui le frasi si concatenano in sequenze così ben consegnate e montate che perfino i luoghi comuni prescelti nel percorso paradossale suonano come gag. Potremmo anche sussultare di filosofico riso. L'altro testo, Lente deformante, descrive accuratamente la condizione dello scrittore che vorrebbe descrivere la realtà tale e quale, così come gli accade o gli accadrebbe di percepirla o allucinarla o ricordarla da instancabile osservatore di fenomeni e scrutatore di destini. Descrivere la morte in persona, fin dal suo primo timido apparire, mentre egli sta morendo. Insomma scrivere «come fosse lui stesso la morte che si autodescrive», morire con la penna in mano, questo sarebbe il massimo dei realismo e lo ripagherebbe degli enormi sacrificí compiuti per identificarsi con le parti in causa. Il libro termina con una svolta inattesa, poche righe in cui l'allegoria non è più ipotetica, non è più dimensione puramente mentale perché ha preso corpo in una realtà delicata, felice e inevitabilmente fragile»

(Alfredo Giuliani, La Repubblica, su “Orari contrari” di Klobas)

i novissimi

Che cosa ci si aspetta dagli scrittori? Che nelle loro finzioni introducano dosi più o meno cospicue di verità, lampi di conoscenza sui mondi reali o immaginabili. La lingua della scrittura letteraria non è mai innocente e “naturale”. E’ invece storicamente determinata e sempre in lotta con se stessa per non ripetere il già fatto. In una certa epoca si può, con qualche profitto, variare e arricchire; in altre epoche, quando si avverte l’esaurimento irrimediabile dei correnti modelli linguistici e formali, si è spinti, se vogliamo dallo spirito dei tempi, a ricercare il nuovo, a escogitare inediti modi di raccontare, di fare poesia o teatro. Ciò che chiamiamo la Tradizione è la conservazione delle novità che si sono succedute nel corso dei tempi: “Literature is news that STAYS news” (Ezra Pound in ABC of Reading).
Gli scrittori italiani che quasi loro malgrado hanno dovuto inventare il Gruppo 63 appartengono appunto a uno di tali periodi. La passione critica del nuovo agitava il karma occidentale di letterati, artisti e musicisti, dall’Austria al Brasile. Nei primi anni Cinquanta l’avanguardia era generalmente ritenuta una faccenda remota, ormai superata. Nella nostra temperie beatamente provinciale, qualcuno si accorse che la Tradizione moderna era segnata dalle avanguardie, e come tutte le tradizioni anche questa andava rivisitata. Le cose che passano, anche restano. Fenomeno dalle molte facce, la neoavanguardia fu anzitutto una rivisitazione critica della modernità, un ripercorrerla senza pregiudizio e con molta passione di capire. Capire, poniamo, perché si provassero emozioni sottilmente o violentemente diverse nell’ascoltare i concerti per violino e orchestra di Mendelsohn e di Bartòk, nel guardare un Caravaggio e un collage di Kurt Schwitters, nel leggere Leopardi e Samuel Beckett. Tutto ciò accadeva, guarda caso, alle soglie della postmodernità. In qualche modo, alla luce critica di quella rivisitazione, la modernità si mostrava già declinante, e le esperienze dell’arte e della letteratura d’avanguardia, anziché superate, sembravano le più vitali e promettenti. Non consentivano nostalgie o facili epigonismi, incitavano i poeti, gli “espressori” li aveva chiamati Carlo Emilio Gadda in Viaggi la morte, a non arrendersi all’evidenza del declino.
Bisogna intendersi su questo punto. L’avanguardia s’infila nelle fessure e fratture della storia rendendole bellamente o sgradevolmente visibili o folgoranti. Non ha alcun rilievo che l’autore partecipi a un movimento o sia un perfetto individualista più o meno socievole. Essa si definisce dalla tendenza, dal linguaggio, dalla visione caratterizzanti certe opere che sono state o sono contro la comoda e alienante gestione della Continuità. L’avanguardia è nomade e polimorfa. La ritrovi in una teoria estetica, la Lettera del veggente di Arthur Rimbaud e i Manifesti futuristi, o in un romanzo epico alla rovescia come Ulisse di James Joyce. La musa esigente dell’avanguardia è l’assillo bodleriano di trovare il nuovo, è l’ambizione di Rimbaud alle invenzioni d’ignoto. Ed è anche il gaio spirito d’irrisione del patafisico Jarry, è la leggerezza maliziosa e indolore del primo Palazzeschi. Il nuovo a cui aspira l’avanguardia non è la novità di stagione. Contrariamente a quanto credono molti, essa mira all’assolutezza del gesto e del risultato: non è avanguardia di nessuno, ma soltanto di se stessa.
“Gruppo 63” è una sigla di comodo di cui spiegheremo un po’ più avanti l’origine. Di fatto dietro a questa sigla c’era un movimento spontaneo suscitato da una vivace insofferenza per lo stato allora dominante delle cose letterarie (1): opere magari anche decorose ma per lo più prive di vitalità e di rilievo stilistico innescavano prolungati dibattiti critici. Un blando romanzo tradizionale come Metello di Pratolini, uscito nel 1955, fornì agli addetti ai lavori l’occasione di eccitate analisi e discussioni che divamparono per mesi e mesi. Furono l’ultima fiammata del neorealismo in letteratura, fioca eco populista della grande stagione cinematografica dei Rossellini e dei De Sica.
Mentre l’Italia si andava impetuosamente trasformando da paese agricolo a paese industriale, i suoi scrittori facevano una gran fatica a entrare nella modernità. Bisogna pur dire che da parte loro proveniva qualche risposta alla nuova situazione. Vittorini (soprattutto con la rivista “Menabò”), Ottieri e Volponi, per esempio, si ponevano il problema del rapporto tra industria e letteratura, ma le loro opere narrative spesso riproponevano personaggi contadini in vesti operaie, privi di una propria connotazione linguistica. Altri tentavano di interpretare i drammi esistenziali dei nuovi ceti emergenti: è il caso di Cassola e soprattutto di Bassani (Gli occhiali d’oro, Il giardino dei Finzi Contini), che infatti ottiene un notevole successo di pubblico negli anni del “miracolo economico”. Ma anche questa fase di trasformazione della società italiana è meglio rappresentata dal cinema (Antonioni e Fellini) che non dalla narrativa.
Un altro esempio clamoroso della abituale e ahimé rituale distorsione del giudizio critico, vigente in quegli anni, è l’accoglienza quasi concordemente euforica ricevuta dal Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, un buon romanzo tradizionale, letteratissimo, che tra l’altro riecheggia tale e quale (e la critica non mostrò di accorgersene) la morale cinica del principe Consalvo di Francalanza nei Viceré di De Roberto. Si ricordi lo scioglimento del romanzo, il dialogo tra il giovane principe, eletto deputato nel 1882, con la vecchia zia Donna Ferdinanda, inguaribile borbonica, costretta a tacere dalla foga oratoria del nipote. Il suo abbondante eloquio si può così riassumere: Vostra Eccellenza si rassicuri, tutto è cambiato dai tempi feudali, ma tutto resterà nella sostanza come prima. “Certo, la monarchia assoluta tutelava meglio gli interessi della nostra casta; ma una forza superiore, una corrente irresistibile l’ha travolta… Dobbiamo farci mettere il piede sul collo anche noi? Il nostro dovere, invece di sprezzare le nuove leggi, mi pare quello di servircene!…”
Un punto dolente della vita letteraria di quegli anni era proprio lo striminzito orizzonte critico dominante che non solo trascurava opere capitali della Tradizione recente, ma escludeva ogni esigenza di rinnovamento e i problemi che esso comportava: bisognava ripensare la natura dei linguaggi che attraversano la scrittura, quindi le strutture formali che qualificano il testo, i rapporti con una realtà complessa e lacerata, il ruolo che i mezzi di comunicazione assumevano in quella che di lì a poco si sarebbe chiamata “società dello spettacolo”, la posizione di sfida calcolata dello scrittore a convenzioni di stile e di comportamento ormai usurate.
Dalla fine degli anni 50 il concetto hegelo-marxiano di alienazione, rinvedito da T.W.Adorno, si era diffuso nel mondo intellettuale quasi come un’ossessione. Tanto che a scopo apotropaico Umberto Eco l’aveva ridotto a una canzoncina (sul tema allora in voga di Arrivederci) che cantavamo allegramente nei momenti di distensione del convegno palermitano del 1963:

Alienaziooone
è rinunciare al problema
ed arrendersi
solo al sistema
non possedersi più
ma solo attendere …

L’industria ti foggia il destino
a poco a poco
tu credi di essere libero
ma è solo un gioco…

Alienazione
è rinunciare a se stesso
è un processo
di perdizione…

Forse rivoluzione
può liberaaarti…

Ma se la tecnica impera
la libertà è una chimera.
Non ti rimane che dire:
alieenaaazione.

Allora, pur non sentendoci personalmente troppo alienati, sentivamo però davvero incombere l’alienazione nelle forme della vita quotidiana, nonché sull’uso letterario della lingua, la quale d’altronde rispecchia tutte le alienazioni; ne derivava il proposito di usarla quanto possibile contro se stessa. Si potrebbe affermare che in questo disegno agiva una rilevata orma teorica segnata da Luciano Anceschi nel 1936 in Autonomia ed eteronomia dell’arte.
Uomo metodicamente inquieto, di sottilissima intelligenza estetica e speculativa, Anceschi impersonava, sono le sue stesse parole, “la difficilissima gioia della ricerca”. Quella sua prima opera era una fine ricognizione delle poetiche moderne, dal preromanticismo al simbolismo; l’antitesti antinomia/eteronomia vi appariva come una polarità immanente alla vita dell’arte e della letteratura e la principale ragione della loro instabilità. Le arti e la letteratura (la poesia soprattutto) tentano di unificare una quantità di elementi esterni, ai quali possono anche soccombere; e d’altra parte cercano di imporre o sostituire alla realtà dell’esperienza i propri impulsi formali, impulsi che possono irrigidirsi e perdere la vitalità concettuale che li giustifica. Si tratta di vedere da vicino la dialettica storica, sommamente complessa, la tensione ineliminabile tra i due poli. All’interno di questo infinito confronto, Anceschi individua la ricca fenomenologia delle poetiche artistiche e letterarie, la loro teoreticità sempre nuova dentro l’orizzonte prammatico che le caratterizza. Fin dai suoi esordi Anceschi è dunque attratto dal pensiero della complessità. E’ l’uomo della tradizione e insieme è l’uomo dei mutamenti e delle novità, sempre intento a identificare le tracce originarie delle “situazioni”: vedi i suoi studi sul barocco, l’ermetismo, l’astrattismo, Eliot e Pound.
Si spiega quindi come vent’anni dopo Autonomia ed eteronomia dell’arte, cogliendo tempestivamente i segni del mutamento in corso, abbia fondato la rivista “il Verri”. Osservatorio critico e laboratorio di non pochi autori che ben presto sarebbero diventati noti, la rivista coltivava una stimolante varietà di interessi, e proponeva una maniera concettuale molto avvincente di collegare i fenomeni e i metodi per leggerli. Centrale di idee, esplorazioni e “umori”, “il Verri” prestò attenzione particolare ad autori e movimenti culturali degli altri paesi, e favorì in Italia la rinascita dell’avanguardia, ne sostenne lo slancio e l’allevò nelle sue pagine. Nel 1961, uscita nelle edizioni della rivista l’antologia I novissimi, di cui non aveva esitato a accettare l’impostazione dirompente, Anceschi affermò quasi sollevato: “Per quel che riguarda la poesia, si può dire con qualche fondamento che il dopoguerra finisce solo ora”. Gli sembrò una svolta, che risarciva una lunga insoddisfazione. L’introduzione di Giuliani si concludeva con una scommessa:

Nessuna profezia è contenuta nel sottotitolo del frontespizio: poesie per gli anni ’60. Comincia appena ora un altro periodo che vorremmo augurarci meno triste e faticoso di quello che abbiamo vissuto negli ultimi dieci anni. Ma assumiamo pure che tristezza e fatica continuino: è difficile soffocare con le intimidazioni critiche il bisogno di parlare in versi. Io credo, senza escludere che altri abbiano fatto o stiano facendo del loro meglio, credo che le poesie qui raccolte aprano più di uno spiraglio, e che sia quasi impossibile ignorare le esperenze e la carica vitale che noi, ciascuno a suo modo, abbiamo tentato di mettere nel linguaggio. C’è qui, voglio dire, qualche risultato tangibile e un’offerta a pensare e a dire. Ogni volta che in Italia qualcuno vuole essere contemporaneo, deve scontrarsi con l’immaturità sociale, col provincialismo politico, con le improvvisazioni e inquietudini che si pretendono soluzioni, con la perpetua commistione di anarchismo e legittimismo. Non si può supporre che tutto questo non sia rappresentato dal nostro linguaggio; ma si deve chiedere qualcosa di più. In tale senso, per avere chiesto alla poesia un possibile accrescimento di vitalità, gli autori qui presenti possono presumere di fornire una indicazione, una proposta valevole per tutti. (2)

Oltre a furibonde polemiche, la proposta suscitò non poche adesioni, anche in ambiti diversi dalla letteratura come la pittura e la musica. Intorno al “Verri” e sotto la propulsione dei Novissimi crebbe un movimento di stimoli e consonanze che sembrava aleggiassero già nell’aria. Fu un compositore, Luigi Nono, a suggerirci la formula impiegata dagli scrittori tedeschi per gli incontri annuali del Gruppo 47. Nella Germania del dopoguerra i giovani scrittori si erano trovati davanti al compito di ricostruire una tradizione letteraria spezzata dal nazismo e dalla guerra, e il Gruppo 47 era stato lo strumento di lavoro messo in piedi a tale scopo. Strumento semplice, agile e facile da allestire periodicamente: un seminario annuale in cui gli scrittori confrontavano i loro lavori in corso, leggendoli e criticandoli reciprocamente, non per riconoscersi su orientamenti e poetiche comuni, ma per rifondare in tempi brevi la loro letteratura. Da Günter Grass a Ingeborg Bachmann, da Enzensberger a Peter Handke, per molti anni gli scrittori tedeschi si misurarono in questo laboratorio d'emergenza.
Il modello tedesco ci sembrò molto interessante perchè rispondeva a un nostro bisogno costante di confrontarci e di discutere. Certo i connotati storici della nostra situazione erano diversi da quelli in cui era nato il Gruppo 47; eppure, nella sostanza, le nostre intenzioni erano abbastanza consimili. I giovani scrittori tedeschi del dopoguerra erano partiti da una situazione di rovine e di deserto culturale, non sentivano dietro di sé una tradizione recente da superare, una generazione letteraria con cui fare i conti. L’intera cultura tedesca era stata annientata dal nazismo o dispersa nell’esilio. Da noi, invece, il fascismo aveva più blandito e addomesticato che non perseguitato gli scrittori; i quali da parte loro si erano adattati a fare tutt’al più un pochettino di fronda. Transitati senza grandi scosse dalla guerra al dopoguerra, dalla dittatura alla democrazia, nel mezzo del boom economico esploso alla fine degli anni Cinquanta, anche noi sentivamo di dover ricominciare daccapo; solo che, in luogo del deserto, avevamo di fronte un sistema culturale antiquato, asfittico e potente che occupava pressoché tutti gli spazi della comunicazione, ostacolando ogni tentativo di rinnovamento. Gli stessi studiosi e i letterati marxisti ormai dominanti nel sistema erano, tranne pochi casi (per esempio Galvano Della Volpe), tutti abbondantemente crociani. Non è un caso che l’opinione allora prevalente riguardo alle avanguardie fosse, né più né meno, che le avanguardie erano sepolte e superate. E d’altra parte il tema dell’impegno dello scrittore ingombrava ancora i percorsi del discorso letterario. In proposito era diffusa una carenza teorica di cui si era reso conto anche Elio Vittorini, in una lettera del 20 dicembre 1963, resa nota solo di recente, a Italo Calvino:

In questi ultimi anni (tre ultimi, quattro ultimi) noi ci siamo persuasi, a ogni buon conto, che anche l’impegno storico-sociale, lo storicismo, l’ideologismo eccetera, eccetera, cui ci eravamo applicati da poco prima della guerra non servono minimamente a rompere e modificare la condizione minorata della letteratura e anzi radicalizzano il carattere culturalmente subalterno di essa se li assumiamo (da fuori, e così come sono fuori) entro le nostre invariate strutture ingenue (…). Certo si è potuto giungere, in questa assunzione ingenua dello storico-sociale a punti di poesia culturalmente avanzati e significativi, ma l’insistervi è a poco a poco a poco diventato un disastro, ha prodotto creature ripugnanti (…). Il guaio non deriva dall’interesse storico-sociale in sé, ma dal modo fasullo in cui è stato assunto, né può esservi salvezza nel tornare a assumerlo, se non salviamo le strutture stesse del discorso letterario dall’ingenuità che le depotenzia e non le rendiamo capaci di elaborare, a livello con le scienze e le tecniche oggi più avanzate, un senso anche storico-sociale che risulti strutturalmente suo proprio. (3)

I termini di questo problema, che tanto arrovellava Vittorini, noi li avevamo già da tempo ribaltati: anzitutto era evidente che non esisteva nessuna contraddizione di principio tra impegno e avanguardia, e che solo riconoscendo il primato delle strutture linguistiche era possibile alla letteratura confrontarsi con la realtà. Nell’introduzione ai Novissimi (1961) si poteva leggere:

Nessuno di noi vuole dimostrare o limitarsi a denunciare alcunchè: ognuno ha coltivato senza pietismi la propria capacità di contatto con le forme linguistiche della realtà. Suppongo sia chiara in noi una vocazione a conoscere, leggibile in ciò che scriviamo e non presunta in ciò che proclamiamo di voler scrivere. (…) Tutti noialtri ci siamo fatti un problema di verità, di rinnovamento strutturale, non di realismo coatto. (…) Se conveniamo che, in quanto “contemporanea”, la poesia agisce direttamente sulla vitalità del lettore, allora ciò che conta in primo luogo è la sua vitalità linguistica. (…) E nei periodi di crisi il modo di fare coincide quasi interamente col significato. (…) Per noi è pacifico che una posizione errata verso i problemi del linguaggio non si spiega facilmente con la desolazione della società. Storicamente, esiste sempre una posizione giusta, anche se questa, proprio perché “giusta”, possa forse condurre a un destino “sperimentale”. (4)

E Angelo Guglielmi:

Ogni ponte tra parola e cosa è crollato. La lingua in quanto rappresentazione della realtà è ormai un congegno matto. Tuttavia il riconoscimento della realtà rimane lo scopo dello scrivere. Ma come potrà effettuarsi? La lingua che ha fin qui istituito rapporti di rappresentazione con la realtà, ponendosi nei confronti di questa in posizione frontale, di specchio in cui essa direttamente si rifletteva, dovrà cambiare punto di vista. E cioè o trasferirsi nel cuore della realtà, trasformandosi da specchio riflettente in accurato registratore dei processi, anche i più irrazionali, del formarsi del reale; oppure, continuando a rimanere all’esterno della realtà, porre tra se stessa e questa un filtro attraverso il quale le cose, allargandosi in immagini surreali o allungandosi in forme allucinate, tornino a svelarsi. Questa è l’operazione essenziale del nuovo sperimentalismo. (5)

Renato Barilli, polemizzando nel 1960 con Calvino a proposito degli intellettuali italiani:

Quando poi, in questo dopoguerra, essi hanno avvertito la necessità di uscire dalla lunga clausura e di partecipare, di assumere un pubblico impegno, hanno preteso riportarsi nel vivo della corrente, di colpo, senza passare attraverso pazienti mediazioni. Si sono allora precipitati a qualificarsi nel modo che appariva essere il più radicale e perentorio: si sono qualificati circa la ragion pratica, la ragione etico-politica, dimenticando del tutto gli altri aspetti dell’orizzonte culturale: aspetti psicologici, gnoseologici, concezioni del vedere, del percepire, del sentire, che pure per un artista costituiscono la via principale per integrare il suo primo nucleo poetico e prendere a partecipare a una cultura. (6)

Fausto Curi:

In quanto avverte se stessa come parte integrante di una metodologia, è naturale che oggi l’arte d’avanguardia abbia di sé non una conoscenza ontologica, ma una conoscenza tecnica, strumentale, procedurale, e che il suo impegno massimo sia da un lato un impegno di relazionalità, dall’altro un impegno di funzionalità, di efficienza tecnica e di efficacia operativa. Ma converrà sttolineare anche l’importanza della coscienza negativa (e dunque dell’impegno negativo) che essa ha acquisito di sé. Aver scoperto che l’arte non può salvare l’uomo né mutare il mondo né identificarsi con la vita o, peggio, essere sostituita a essa; aver deciso che l’arte non è un modo di consolazione o di evasione, che, anzi, non sussiste un diritto di consolazione o di evasione per chi ha scelto quella forma di presenza nel mondo che è l’arte; aver negato che esista per essa un orizzonte privilegiato di verità, che essa, ancora sia la Verità e l’Innocenza; essersi liberato sia dell’orgoglio che della vergogna dell’arte: tutto ciò è, se non altro, indiscutibile merito dell’artista d’oggi. (7)

Questi brevi flash testimoniano una situazione di ricerca, idee e fervori che portò quasi naturalmente alla nascita del “Gruppo 63”.(8) Se la nostra sigla riprendeva quella delle riunioni tedesche, le nostre intenzioni erano in buona parte ludiche: ci piaceva portare allo scoperto una sfida che fino a quel momento era soltanto implicita nei nostri primi libri, negli articoli che apparivano nel “Verri” e nelle nostre perpetue discussioni, che ai quei tempi avvenivano anche per via epistolare. Ci avrebbe fatto molto comodo un luogo dove ritrovarci di tanto in tanto in seduta plenaria, per litigare proficuamente tutti insieme.
La prima occasione ci fu offerta nel 1963 da Francesco Agnello, che guidava la “Settimana internazionale Nuova Musica” di Palermo, prestigiosa manifestazione dei giovani compositori d’avanguardia. Dal 2 al 9 ottobre il programma comprendeva i nomi di Ligeti, Evangelisti, Clementi, Pousseur, Donatoni, Cardew, Nono, Stockausen, Berio, Bussotti, Kagel, Chiari, Schnebel, Feldman… Invitati a partecipare in qualità di scrittori che seguivano un itinerario di rinnovamento parallelo a quello dei musicisti, oltre alle nostre reciproche letture di lavori in corso (a porte chiuse), organizzammo un mulinello di undici atti unici, messi in scena alla Sala Scarlatti del Conservatorio, e partecipammo a un movimentato ciclo di conferenze a più voci su teatro, teatro musicale, musica, pittura, poesia, narrativa. L’insieme suscitò un inaspettato frastuono che rimbalzò sulle pagine di quotidiani e settimanali e i cui echi il paziente lettore potrà orecchiare nel resoconto di Pietro Buttitta alla fine di questo libro. Ciò che a noi interessava in quel momento non era certo il “frastuono”, ma l’aver messo in campo una “disposizione morale”. Il clima del nostro incontro è stato così vivacemente descritto da Umberto Eco:

Dato che c’erano fratture, ogni lettura fatta non riscuoteva il consenso generale. Così ciascuno esponeva il proprio punto di vista, e nel modo più impietoso. Non ci si dichiarava perplessi: ci si diceva contro. E si diceva il perché. Quali fossero i perché non conta. Conta che in questa società letteraria l’unità si stava realizzando a poco a poco attraverso due implicite assunzioni di metodo: 1) ogni autore sentiva necessario controllare la sua ricerca sottoponendola alle reazioni altrui; 2) la collaborazione si manifestava come assenza di pietà e di indulgenza. Correvano definizioni da levare la pelle agli animi meno sensibili. Espresso pubblicamente nell’ambito della società letteraria apollinea, ciascuno di questi giudizi avrebbe segnato la fine di una bella amicizia. Si sarebbero aperte le cateratte polemiche sui fogli noleggiati ad hoc; si sarebbero denunciati i vergognosi moventi del dissenso critico, le spose prese a prestito, le cattedre nascoste nella manica, il premio letterario occultato sotto il cappello e passato sottobanco al figlio naturale.
A caratterizzare il comportamento degli utenti di questo ponte di San Luis Rey palermitano, stava invece l’accettazione, la richiesta del gioco.
Dunque il gruppo esisteva, ed esisteva la poetica comune: più che un progetto di operazione estetica era una disposizione morale, una constatazione storica. Si constatavano i pericoli di un lavoro letterario soltanto individuale, la necessità di una ricerca collettiva, anche là e proprio là dove le prospettive e le soluzioni divergevano. (9)

E fu proprio il dibattito col quale si aprì la settimana che, mettendo a confronto le diverse e a volte contrastanti posizioni, ci rassicurò sulla vitalità dei nostri intenti. Ecco alcuni tratti delle prospettive a cui eravamo arrivati. Per Alfredo Giuliani:

Il tipo di letteratura che chiamiamo tradizionale accetta l'esistenza della lingua colta corrente nelle sue strutture semantiche e sintattiche e ne accetta l'esistenza come una garanzia. Al contrario, il tipo di letteratura che chiamiamo d'avanguardia non accetta l'esistenza della lingua colta corrente come una garanzia e non considera le sue strutture come razionali, ma semplicemente come storiche. (...) Per dirlo in una maniera molto sintetica, penso che la letteratura d'avanguardia sia caratterizzata dall'esibire la propria struttura arbitraria e maniaca quale forma eteronoma rispetto alla percezione del mondo: mostrando immediatamente i tralicci e sapendo di essere letteratura, essa rimanda all'apparenza reale in una maniera diversa dalla letteratura comune, che è sempre un tipo di letteratura mimetico, o esplicativo, o semplicemente razionale nel senso illuministico o naturalistico della parola. In un certo senso potremmo definire la nozione in modo allegorico, dicendo che si ha letteratura d'avanguardia là dove la delucidazione del linguaggio si presenta come enigma o interrogazione oltre la mistificazione dei falsi enigmi, cioè senza prendere per buona, fino in fondo, nè l'apparenza reale nè la letteratura in quanto tale. Di qui il suo grande margine di rischio, le sue buffonate e anche la sua 'sublimità'.

Per Angelo Guglielmi:

La linea 'viscerale' della cultura contemporanea in cui è da riconoscere l'unica avanguardia oggi possibile è a-ideologica, disimpegnata, astorica, in una parola 'atemporale'; non contiene messaggi, nè produce significati di carattere generale. Non conosce regole (o leggi) nè come condizione di partenza, nè come risultato di arrivo. Suo scopo è quello di recuperare il reale nella sua intattezza: ciò che può fare sottraendolo alla Storia, scoprendolo nella sua accezione più neutra, nella sua versione più imparziale, al grado zero. Gadda, Robbe-Grillet, Pollock colgono le cose al di qua (prima) di ogni possibile interpretazione, di ogni loro (delle cose) compromesso con una qualsiasi situazione di valore, non in quanto indicazioni di realtà, ma quali esemplari di realtà, campioni di materia.

A questa visione si opponeva Sanguineti:

Io non credo che ciò che caratterizza l'avanguardia sia questa assunzione privilegiata del linguaggio contro l'ideologia, ma la ferma consapevolezza che non si dà operazione ideologica che non sia, contemporaneamente e immediatamente verificabile nel linguaggio. Ed è anche troppo evidente che per il linguaggio non si ha da intendere, con una sorta di riduzione materica, la mera superficie stilistica dell'opera, ma la sua struttura espressiva, in generale. (...) L'avanguardia esprime quindi, in generale, la coscienza del rapporto fra l'intellettuale e la società borghese, portata al suo grado ultimo, ed esprime contemporaneamente, in generale, la coscienza del rapporto tra ideologia e linguaggio, e cioè la consapevolezza del fatto che ciò che è proprio dell'operazione letteraria in quanto tale è l'espressione di un'ideologia nella forma del linguaggio. E' insomma chiaro che, nelle strutture fondamentali dell'ideologia borghese, si è costituita una normalità, anche a livello linguistico, che l'avanguardia si rifiuta di accettare, a prezzo di apparire di fronte alla normalità borghese costituita, immediatamente come pura patologia. (...) Per essere autenticamente critica, e autenticamente realistica, l'arte deve energicamente uscire dai limiti della normalità borghese, cioè dalle sue norme ideologiche e linguistiche.

Mentre per Renato Barilli:

C'è un altro modo di intendere la nozione di ideologia. Una 'visione del mondo' non ha da rispondere solo sul piano sociale, cioè proporre una teoria – poniamo – sulle classi sociali, proporre un sistema economico, un sistema politico. Una visione del mondo coerente deve rispondere su tanti altri punti: ci sono tutti i punti che, sempre kantianamente, si potrebbero dire della ragion pura; ma non spaventi questo termine, non sembri troppo astratto; si sa che per Kant la ragion pura riguarda la percezione, il conoscere, lo spazio, il tempo. Ora questi sono problemi altrettanto fondamentali per una visione del mondo quanto i problemi del gruppo economico-politico. E invece che cosa è avvenuto, specialmente in questo dopoguerra? E' avvenuto che i problemi della ragion pura, cioè i problemi relativi al conoscere, i problemi di ordine psicologico, gnoseologico, epistemologico, antropologico in genere sono stati sistematicamente depressi a favore di problemi etico-politici, mentre si dà il caso che le arti visive e la letteratura siano molto più prossime ai problemi appunto di ordine gnoseologico, cioè in genere conoscitivo, percettivo, antropologico, che non ai problemi di ordine politico-economico.(10)

Dopo la settimana di Palermo, il fantasma del Gruppo poteva tranquillamente fingere di esistere. Avevamo scoperto che per ottenere uno spazio temporaneo, una volta l’anno, anziché sognare riunioni private, collettivamente impraticabili, era molto più facile smuovere sindaci, assessorati alla cultura, aziende di turismo. E finchè ci piacque così fu.
Nel 1964 andammo a Reggio Emilia e qui gli scontri furono più pungenti: i proseliti crescevano, scendevano in motocicletta da Udine, risalivano la penisola in comitive. Letterati, dalle province e dalle città, chiedevano come ci si iscriveva al Gruppo 63. Un simpatico inviato del “Messaggero”, tradizionalista di ferro, s’era annotato alcuni spezzoni della discussione e ne riportò una filza senza commento: “turpiloquio cosmico” (pare la voce inconfondibile del Manganelli), “letteratura farmaceutico-viscerale”, “prosa caratterizzata dal complesso d’inferiorità”, “racconto che si racconta e non è raccontato”. Questi erano i rischi di un laboratorio praticato in pubblico.
L’anno dopo, tornati a Palermo, discutemmo del romanzo con rinnovati e proficui contrasti. Eco andava dicendo che ormai il disaccordo interno era il nostro “sport statutario”. Giancarlo Marmori, garbatissimo e lievemente impressionato, notava su “L’Espresso” che l’incompatibilità o complementarità delle posizioni teoriche (chi vuole l’avventura, chi il romanzo ideologico, chi vuole “normalizzare” l’avanguardia e chi la vuole spingere al “grado zero”) animava una discussione interminabile e sottile che proseguiva “ovunque era possibile farsi sentire, a tavola, nei bar, sui marciapiedi. Era cominciata anzi a bordo degli aerei che dal Nord volavano verso Palermo, o tentavano di decollare, inchiodati a terra negli aeroporti, dirottati per schivare l’uragano, mantenuti in volo perché le piste d’atterraggio erano fradice”.
Ecco, questa era la parte verace e intellettualmente genuina del Gruppo 63. Senza volerlo, quasi per una intuizione di scrittore, Marmori aveva azzeccato una metafora: a quei tempi noi si volava sopra le circostanze, a loro dispetto, utilizzandole. Ci appassionavano i problemi della letteratura in quanto della letteratura e in quanto, sempre, qualche cosa d’altro (storia, biografia, ricerca, consumo del linguaggio).
Nel 1966 andammo a La Spezia e fu un incontro assai piacevole con bellissime feste e parecchi nomi nuovi. Però cominciavamo a essere stufi della lettura dei testi. L’anno dopo a Fano, ultima riunione ufficiale del Gruppo, lasciammo tutto lo spazio agli esordienti.
Il periodo degli esperimenti era concluso. Il mondo stava cambiando, si avvicinava il Sessantotto. Sapevamo o sentivamo che bisognava prepararsi uno “spazio” diverso, un “luogo” da gestire con le nostre forze: nacque il mensile “Quindici”, che raggiunse rapidamente una grande diffusione, arrivando a tirare più di 30.000 copie. Ma la sempre crescente politicizzazione della rivista, travolta dagli avvenimenti europei e nostrani, esasperò contraddizioni e spaccature tra i collaboratori; ciò determinerà la sua chiusura nell'autunno del '69, data che può essere considerata quella della fine della neoavanguardia come fenomeno (si fa per dire) organizzato.
Nonostante tutte le scemenze rovesciate addosso al Gruppo 63 dai suoi deprimenti avversari, la neoavanguardia italiana non s’era mai posta come una alternativa di potere; s’era presentata invece come un’alternativa (discutibile fin che si vuole) di idee, di poetiche, di valutazioni. Non ha mai programmato di diventare una cittadella, né di dare la scalata a nulla. Ha goduto di qualche simpatia e di alcune cordiali ospitalità. Fino alla libera e breve impresa di “Quindici”, la sua occupazione di certi spazi fu doverosamente provvisoria. Così la neoavanguardia italiana non ha avuto alcun capo carismatico. Qualcuno all’esterno ha creduto di identificarlo in Sanguineti, quanto meno come “capofila”. In realtà Sanguineti non capofilava un bel niente, anche se aveva il suo bravo prestigio, né Balestrini o Eco o Pagliarani, o altri, capofilavano. C’era una specie di collettivo informale tenuto insieme dalla reciproca convinzione che a dispetto dei dissensi si andava tutti contro la Letteratura Costituita. Ci si divertiva, mentre i nostri avversari, quando ci capitava di incontrarli ci guardavano imbronciati e addirittura cupi. Il Gruppo metteva la serietà sotto il controllo del gioco: la carica di autoironia, la volontà di sperpero gli hanno sanamentre impedito di programmare la propria sopravvivenza. Tutto ciò spiega perché i “superstiti” non si sentano affatto orfani: non hanno perso il Capo, non hanno perso la Mamma, non hanno tradito nessuna Ideologia. Anzi, contrariamente a un ripetuto luogo comune, a loro si devono le opere poetiche narrative e saggistiche più caratterizzanti gli anni 60. E ovviamente, dato che erano tutti abbastanza giovani, anche nei decenni successivi hanno continuato a scrivere mica male, e magari anche meglio.

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Molti dei testi inclusi in questa antologia sono stati letti nel corso degli incontri annuali del Gruppo. Si tratta di poesie, brani narrativi o lavori teatrali (a volte in forma di frammento). Una buona parte era già contenuta nel volume Gruppo 63 pubblicato nel 1964. Alcuni testi sono di autori che, pur non avendo partecipato agli incontri, si riconoscevano nell’iniziativa del Gruppo e ne condividevano le motivazioni. Non abbiamo scelto alcun testo successivo al 1969, per non oltrepassare il periodo che ci sembra caratterizzato fortemente dallo sperimentalismo. Nel decennio che qui viene documentato gli esperimenti si succedevano tumultuosamente in una ebbrezza liberatoria dai canoni ormai usurati della Letteratura Corrente. Ebbrezza lucida, stimolata dal desiderio di trovare nuove strade alla realtà della scrittura. Che importa se non tutti i tentativi dettero frutto? Anch’essi contribuiscono a disegnare i lineamenti di quel periodo estroso e generoso.
Ci sembra impossibile e probabilmente anche inutile individuare negli scrittori qui presenti una poetica comune; possiamo però notare alcune costanti nella formazione del loro gusto: anzitutto la rivisitazione delle avanguardie passate (cosiddette “storiche”), magari sulle tracce di esperienze contemporanee, per esempio il Teatro dell’assurdo di Ionesco e Beckett, il Nouveau roman di Robbe-Grillet & Co., il Cut-up di Bourroughs… Osserviamo poi che sul piano della contemporaneità ha agito su molti il confronto con le arti e la musica, il cui sviluppo novecentesco sembrava lasciare indietro i metodi compositivi dei poeti e dei romanzieri, e li stimolava al confronto.
Nell’ambito di questa situazione di ricerca e discussione, che aveva alle sue origini il lavoro del “Verri” e la sortita dei Novissimi, si formarono spontanee aggregazioni che dettero vita a riviste più o meno durature, ma molto caratterizzate: “Marcatrè” a Genova, diretta da Eugenio Battisti; “Grammatica” a Roma, su iniziativa dei pittori Achille Perilli e Gastone Novelli insieme a Alfredo Giuliani e Giorgio Manganelli; “Malebolge” a Reggio Emilia. Ci furono i giovani narratori della “Scuola di Palermo” e il fiorentino “Gruppo 70” di Pignotti e Miccini che si occupava attivamente di poesia visiva.
Il primo editore che sostenne gli scrittori del Gruppo fu Giangiacomo Feltrinelli, che, oltre a pubblicare “Il Verri” dal 1962 al 1972, diede larga ospitalità ai loro libri in diverse collane curate da V. Riva e N. Balestrini (Le Comete, Materiali, Poesia). Vanni Scheiwiller, fra il 1961 e il 1966, pubblicò una collana intitolata Poesia Novissima. L’editore Einaudi, dopo la riedizione del 1965 dell’antologia I Novissimi, inaugura con La figlia prodiga di A. Ceresa la serie italiana della Ricerca letteraria, a cura di G. Davico Bonino, G. Manganelli, E. Sanguineti, prevalentemente dedicata a autori del Gruppo.
Frequenti i rapporti della neoavanguardia letteraria italiana con analoghi movimenti stranieri di quegli anni, come il gruppo brasiliano “Noigandres”, laboratorio di poesia concreta (il loro ambasciatore era l’infaticabile Haroldo de Campos, appassionato di Dante e Leopardi). Gli scrittori francesi raccolti intorno alla rivista “Tel Quel” avvertivano sintonie con ciò che accadeva in Italia e pubblicavano testi di autori del Gruppo; due di loro, Pleynet e Thibaudeau, parteciparono al convegno di Reggio Emilia. Il Literarisches Colloquium di Berlino, diretto da Walter Höllerer, nel 1965 invitò autori del Gruppo 63 e furono rappresentati e trasmessi in diretta televisiva due testi di Giuliani e Sanguineti, allestiti da una compagnia italiana con regia di Piero Panza e scenografia di Toti Scialoja.
Nel 1967 fu organizzato a Barcellona un incontro di tre giorni con scrittori, artisti e architetti spagnoli, che si svolse nella Escuela di Diseño (EINA), allora appena inaugurata in una vecchia casa ai piedi del Tibidabo, un po’ isolata e perfetta per un convegno non permesso dalle autorità franchiste, reso molto agevole dalla cura organizzativa di Beatriz de Moura, oggi a capo delle edizioni Tusquets. Parteciparono gli scrittori Carlos Barral, Jaime Gil de Biedma, José Agustìn Goytisolo, Gabriel Ferrater, Juan Marsé, Salvador Clotas, Gabriel Celaya; i critici Josep Castellet, Roman Gubern, Aleixandre Cirici; gli architetti Ricardo Bofill, Oscar Tusquets, Federico Correa e Oriol Bohigas; i pittori Antoni Tàpies e Albert Rafols Casamada; il regista Carlos Saura. Da parte italiana: Luciano Anceschi, Nanni Balestrini, Renato Barilli, Pietro Buttitta, Furio Colombo, Guido Davico Bonino, Gillo Dorfles, Umberto Eco, Inge Feltrinelli, Enrico Filippini, Alfredo Giuliani, Angelo Guglielmi, Germano Lombardi, Giorgio Manganelli, Giulia Niccolai, Elio Pagliarani, Vittorio Gregotti, Antonio Porta, Valerio Riva, Mario Spinella.

NOTE

(1) "Un discorso sulla narrativa italiana del dopoguerra muove necessariamente, per quel che ci riguarda, dalla dichiarazione di un'insoddisfazione radicale, totale, coinvolgente, che quasi non lascia luogo a eccezioni e a recuperi; per chi scrive queste righe non vi può essere dubbio: essa è tutta 'sotto' un certo livello di decenza e di consapevolezza, quale può essere richiesta da un pubblico moderno."(Renato Barilli: Cahier de doléances sull'ultima narrativa italiana, in “Il Verri” n. 1, febbraio 1960).
"Il problema da superare è questo: la realtà di nove decimi della poesia contemporanea italiana è ancora crepuscolare, intimamente mediocre, personalistica, ingolfata in una tematica confusa e sentimentale. Occorre più forza, più generosità, più immaginazione. Il brutto per una poesia è di non agire, di essere soltanto una parentesi tra i 'problemi': una poesia simile, se cambia il mondo lo cambia solo in peggio." (Alfredo Giuliani: Poesia e errore, in “Il Verri” n. 3, giugno 1959).
“Un crisi del linguaggio, quale io intendevo stabilire e patire nei miei versi, trovava conforto e analogia in affini esperimenti pittorici (e musicali), assai più che in esperimenti di ordine letterario", scriveva nel 1961 Edoardo Sanguineti. (Appuntamento con l'avanguardia, in “L'approdo letterario” n.37, gennaio/marzo 1967).

(2) “Introduzione ai Novissimi” in I Novissimi, Edizioni del Verri 1961, poi Einaudi 1965.

(3) Elio Vittorini: Cultura e libertà, Aragno 2001.

(4) “Introduzione ai Novissimi”, cit.

(5) Avanguardia e sperimentalismo, in “Il Verri” n.8, aprile 1963, poi in Avanguardia e sperimentalismo, Feltrinelli 1964.

(6) Il mare dell’oggettività in “Il Verri” n.2, aprile 1960, poi in La barriera del naturalismo, Mursia 1964.

(7) Tesi per una storia delle avanguardie, in “Il Verri”, n. 8, aprile 1963, poi in Ordine e disordine, Feltrinelli 1965.

(8) In un breve spazio di tempo, tra il 1963 e il 1964, usciranno Fratelli d’Italia e La narcisata – La controra di Arbasino, Capriccio italiano e Triperuno di Sanguineti, Come si agisce di Balestrini, La scoperta dell’alfabeto di Malerba, Lo sproloquio di Marmori, La scuola di Palermo di Perriera, Di Marco e Testa, Barcelona di Lombardi, Hilarotragoedia di Manganelli, Le donne matte di Colombo, L’oblò di Spatola, L’incompleto di Leonetti, Aprire di Porta, Lezione di fisica di Pagliarani, Nozioni di uomo di Pignotti, Povera Juliet di Giuliani, Pseudobaudelaire di Costa, Variazioni belliche di Rosselli.

(9) Umberto Eco, La generazione di Nettuno, in Gruppo 63, Feltrinelli, Milano 1964, ora in Sette anni di desiderio, Bompiani, Milano 2000.

(10) Il dibattito è documentato nel volume Gruppo 63, cit.