
ALFREDO GIULIANI Nasce il Gruppo 63 Pochi sanno che furono i musicisti del festival della nuova musica di Palermo a voler invitare gli scrittori. E pensarono subito ai collaboratori del Verri.
1.
Tutte le poesie, edite e inedite, scritte tra il 1950 e il 1984, sono raccolte nel volume Versi e non versi (Feltrinelli) 1986). Oltre a parecchie prefazioni, Giuliani ha finora pubblicato tre volumi di saggi - Immagini e maniere, Feltrinelli 1965, Le droghe di Marsiglia, Adelphi 1977, Autunno del Novecento, Feltrinelli 1984- e altri ne ha in preparazione.
Tre recite su commissione (Lubrina 1990) raccoglie operette dialogiche scritte per la radio e la televisione.
Per sapere ciò che l'autore pensa di sé, egli consiglia di leggere ciò che ha scritto per la quarta di copertina di Versi e non versi. Non può ripetersi e non sa dire altro.
2.
Intanto, insieme con gli amici del “Verri” (Balestrini, Barilli, Eco, Filippini, Sanguineti, Angelo Guglielmi) e con l'appoggio esterno di Valerio Riva e tutti gli altri che sapete, inventa un gruppo che non è mai esistito e che ha fatto parlare di sé, il Gruppo 63. Alla ideazione del rumoroso fantasma contribuiscono anche amici compositori e pittori (la prima apparizione avviene infatti al Festival internazionale Nuova Musica di Palermo nel 1963). Tra il '61 e il '65 compone collages di parole e segni in collaborazione con i pittori Franco Nonnis, Gastone Novelli, Toti Scialoja. Nel 1965 pubblica da Scheiwiller un grottesco per musica, Pelle d'asino, scritto insieme con Elio Pagliarani in perfetta letizia.
Nel 1968, lavorando con Jacqueline Risset, cura per Einaudi l'antologia Poeti di “Tel Quel”. L'anno successivo pubblica da Feltrinelli il suo poemetto più ardito, Il tautofono, che trae oracoli lirico-grotteschi dalla dissoluzione psicologica e formale.
Del 1970 è Gerusalemme liberata di Torquato Tasso raccontata da Alfredo Giuliani, con una scelta del poema (Einaudi).
Nel 1973 pubblica presso Adelphi Il giovane Max, racconto per illuminazioni, sberleffi e frantumi.
Nel 1975 esce presso Feltrinelli in due volumetti economici l'Antologia della poesia italiana dalle origini al Trecento.
Il titolo della raccolta di saggi e articoli Le droghe di Marsiglia (Adelphi, 1977) contiene tra l'altro una dose di ironia e una dose di di malinconia: a Marsiglia, Walter Benjamin fumò per la prima volta hascisch e Sade somministrò confetti afrodisiaci di cantaride a prostitute (che poi lo denunciarono per sevizie).
Dopo aver collaborato per qualche tempo al quotidiano “Il Messagero”, diventa nel 1976 critico letterario del quotidiano “la Repubblica”.
Nel 1984 appare da Feltrinelli Autunno del Novecento, scelta di articoli, saggi, relazioni a convegni su scrittori del Novecento italiano. Lo stesso editore pubblica nel 1986 il volume Versi e nonversi, che raccoglie le poesie edite e inedite scritte tra il 1950 e il 1984.
sono raccolte nel volume (Feltrinelli) 1986). Oltre a parecchie prefazioni, Giuliani ha finora pubblicato tre volumi di saggi - Immagini e maniere, Feltrinelli 1965, Le droghe di Marsiglia, Adelphi 1977, Autunno del Novecento, Feltrinelli 1984- e altri ne ha in preparazione.
Tre recite su commissione (Lubrina 1990) include tre operette dialogiche concepite per la radio e la televisione.
Dal 1980 è professore ordinario di Storia della letteratura moderna e contemporanea presso la Facoltà di Lettere e filosofia dell'Università degli studi di Chieti.
Marchigiano, di madre picena e padre pesarese, dall'età di sei anni vive a Roma, dove s'è laureato in filosofia nel 1949 con una tesi su Carlo Michelstaedter. In seguito s'è dedicato pressoché esclusivamente allo studio della letteratura, alla poesia e alla richerca sulle poetiche moderne e contemporanee. Ha collaborato fin dalla fondazione (1956) alla rivista "Il Verri" di Luciano Anceschi, e qui per diversi anni ha tenuto la rubrica di critica della poesia. Ha ideato e curato l'antologia di tendenza I novissimi (Rusconi e Paolazzi, 1961), che segna il momento più innovativo e discusso della poesia italiana dopo la seconda guerra mondiale. L'antologia, con una prefazione-manifesto aggiunta all'introduzione del 1961, è stata più volte ristampata da Einaudi a partire dal 1965 (attualmente esaurita).
Nel 1965 hapubblicato presso Feltrinelli la raccolta di saggi Immagini e maniere, che un contributo personale alla definizione delle maniere di poesia e delle idee di poetica praticate nel decennio precedente (esaurimento dell'ermetismo, neorealismo, neoavanguardia, questioni di metrica, discussioni su ideologia e mestiere, influssi di poeti stranieri).
Nel 1968 in collaborazione con Jacqueline Risset, cura per Einaudi l'antologia Poeti di “Tel Quel”. Nella prefazione si ipotizza che la nuova retorica prodotta dalla cultura semiologica dominante conduca a una poetica del segno, ormai svincolata da tutte le poetiche moderniste della prima metà del Novecento.
L'anno successivo pubblica da Feltrinelli il suo poemetto più ardito, Il tautofono, che trae oracoli lirico-grotteschi dalla dissoluzione psicologica e formale.
Nel 1970 esce da Einaudi Gerusalemme liberata di Torquato Tasso raccontata da Alfredo Giuliani, con una scelta del poema.
Nel 1975 è Antologia della poesia italiana dalle origini al Trecento (Feltrinelli). Questi dun volumetti, di oltre 300 pagine ognuno, sono stati concepiti per avvicinare alla poesia dei classici i lettori comuni, fuori da ogni obblico scolastico; ciò non toglie che possano servire anche allo studio. E non toglie che contengano qualche interpretazione non proprio vulgata. Di cui non si sono accorti gli “specialisti” prergiudicanti l'antologia come meramente divulgativa.
Le droghe di Marsiglia è una “grossa” (nel senso di ingombrante: 410 pagine) raccolta di saggi apparsa da Adelphi nel 1977. Nel titolo c'è una dose di ironia e una dose di di malinconia: a Marsiglia, Walter Benjamin fumava hascisch e Sade somministrò confetti afrodisiaci a prostitute (che poi lo denunciarono per sevizie). Nella trasformazione dell'esperienza provocata dalle “droghe” c'è una allegoria della letteratura? Nel libro, tra tante altre cose, c'è un'analisi dei frammenti di Benjamin Sull' hascisch e c'è qualche argomentazione sulla enciclopedia dell'innominabile progettata da Sade (l'episodio di Marsiglia è interpretato come l'apparizione in qualche modo pubblica del sadomasochismo, cosa di cui ovviamente i giudici non tennero affatto conto).
Nel 1984 è apparso da Feltrinelli Autunno del Novecento (scelta di articoli, saggi, relazioni a convegni su scrittori del Novecento italiano).
Le conferenze Gioco e destino. I segni del sesso nella poesia del Belli è pubblicata nel II quaderno Letture belliane. I sonetti del Belli (Bulzoni, 1982).
Nella vicenda letteraria italiana, sono i Novissimi che si sforzano di decentrare l'io poetico (l'io tronfio e delirante di vecchia memoria), attraverso l'esercizio di un'intelligenza non mistificatoria. Un'intelligenza lucida, che non rinuncia affatto a perseguire la letteratura, ma pretende di farlo in un modo intellettualmente accettabile; riportando sulla scena della letteratura un'esigenza etica che si era usurata e consumata nel dopoguerra e parlando addirittura di necessità del fare poesia, nella volontà di rifondare una civiltà letteraria come quella italiana, impastata di malintesi e di cattiva coscienza. Che poi questo ambizioso progetto sia riuscito a tutti, è un altro conto; ma, certo, si è trattato di un progetto di grande rilievo e di notevolissimo livello. E l'anima intelligente ne è stata, senza dubbio, Alfredo Giuliani. Proprio perché, in lui, intelligenza e talento si bilanciano in quella composizione di forze che, come diceva Barthes, è in grado di dare forma letteraria all'idea. E' un fatto che non si può non sottolineare, parlando della "scrittura" di Giuliani: una scrittura sempre letteraria, anche quando ha le forme di un saggio o di una recensione. Campo di una letteratura che nasce dalla letteratura stessa, viaggio attraverso i percorsi della parola. I saggi di Giuliani, Le droghe dì Marsiglia e Autunno del Novecento, sono specchio delle poetiche e poetica essi stessi. All'insegna di quel vincolo di necessità della letteratura di cui si diceva.
C'è, nella scrittura di Giuliani, sempre "un dialogo ritmico tra le parole"; parole che pensano se stesse e che si attraggono e si respingono. E questa straordinaria virtù, naturalmente, appare come evidenziata nella sua poesia. Per la potenzialità stessa della poesia; perché, come riconosce nella sua consapevolezza critica lo stesso Giuliani, "la poesia sa di poter concentrare in sé, virtualmente, una significanza profonda e anche una possibilità di gioco con i colori e con il corpo delle parole".
La ricerca verbale, nello spazio particolare della poesia, si svolge tanto in senso verticale, nella frammentizzazione analitica della parola, quanto in senso orizzontale, nell'estensione del tratto linguistico. Due sensi di marcia secondo i quali Giuliani ha proceduto, in questi anni, contemporaneamente. Tra le ultimissime raccolte Poetrix Bazar è la prova massima e ricapitolativa, in un certo senso la summa dell'opera poetica di Giuliani, e non inganni il limitato numero delle poesie lì raccolte, perché si tratta in realtà della miniaturizzazione di un vasto e lungo lavoro condotto dall’autore sul verso. Anche nei testi più recenti, Giuliani appare uniformarsi a quel fortissimo senso della forma o dell'efficacia formale della poesia che è uno degli assi portanti della sua formazione estetica o, se si preferisce, della sua poetica.
Giuliani, tra i più tenaci e rigorosi sperimentatori di circuiti inediti del discorso poetico è tra i più profondi indagatori della scrittura poetica e testimonia nei versi di Poetrix Bazaar un ulteriore passo in avanti, nella definizione puntuale della "sostanza impossibile" attraverso la quale il poeta si determina come soggetto parlante/scrivente. Il godimento della lingua che struttura la lingua stessa, nello specifico del "maneggiamento poetico" delle parole, è uno dei riferimenti dell'esperienza di Giuliani e, forse, la cifra stessa della sua scrittura poetica. Tanto nella direttrice delineata in verticale, secondo l'altalenante successione di consapevolezza-inconsapevolezza, attività-passività, del soggetto parlante/parlato; tanto nella direttrice delineata in orizzontale, sulla scia dilagante della scrittura agente/agita.
"Una poesia è vitale", ha scritto Giuliani, "quando ci spinge oltre i propri inevitabili limiti, quando cioè le cose che hanno ispirato le sue parole ci inducono il senso di altre cose e di altre parole, provocando il nostro intervento; si deve poter profittare di una poesia come di un incontro un po' fuori dell'ordinario". Ecco, la stratificazione della poesia; ecco, i fondali profondi della poesia; ecco, la successione dei piani, la linea a spirale.
Raramente, c'è una piena corrispondenza tra gli assunti teorici e le prove effettuali come accade per Giuliani. I risultati sulla pagina, divaricati nell'architettura dello spartito musicale, sono sicuramente tra i più significativi della poesia di questi anni. Costituiscono un punto di riferimento per i più giovani, una somma di esperienze decisive da cui i più giovani hanno imparato molto. Nei suoi libri di poesia, a dispiegarsi sulle pagine sono partiture musicali (e non solo, per esempio, quelle della prima sezione della raccolta Poetrix Bazaar), secondo una variazione costante che dal tono angosciato slitta a quello divertente-divertito, alternando quadri compositi fino al polittico e singole tavole minime fino alla tabella, e mescolando dramma e farsa, tragico e comico, da “Pensando a Emily” allo scherzo delle sorelle agonine, per arrivare allo sciabordante scioglilingua finale “Caro mercato di paese antico”. Ma, si sa, per Giuliani l'anarchia del nonsenso è stimolo creativo, e ha continuato ad esserlo. "L'insensatezza", ha scritto, "è un mero contenuto del nostro mondo: qualcuno se ne servirà per manifestare la propria insensibilità o un comodo cinismo; per altri sarà l'unica possibile e sofferta soluzione stilistica. Il non-senso è divenuto un materiale iconico, come le madonne e gli angeli delle antiche Annunciazioni".
In particolare, testi come le stesse Partiture, oltre a testimoniare l'inarrestabile slittamento del linguaggio al grado dell'insensatezza, sono le forme che pure dichiarano quella sorta di rifondazione della poesia di cui Giuliani si fa portavoce. Prima di tutto come "mimesi critica della schizofrenia universale, rispecchiamento e contestazione di uno stato sociale e immaginativo disgregato". Ma anche, e direi soprattutto, come reinvenzione di un'identità formale della poesia. Nella specie di una ricomposta "scatola sonora", capace di nuovo di legare in un'orchestrazione le sue armonie e disarmonie; in una musica dodecafonica, frutto di una sapiente regia metrica e tonale. E non si può certo trascurare il patrimonio specificamente metrico della poesia di Giuliani: nella ripresa di forme tradizionali (come la canzonetta o il madrigale) dentro la struttura polifonica di un nuovo libretto d'opera che ha messo a frutto l'energia ritmica della tradizione e l'armonia ardita delle avanguardie.
Volendo poi parlare dei pezzi forti dell’ultima produzione, sono a rispecchiamento quasi di contrasto Il badante di Eraclito (nel segno della complessità architettonica) e Poesie per il mio cane (nel segno della semplicità più lineare), si può dire che testimoniano oltre alla grande umanità di Giuliani la sua formidabile attrazione per la musica. Il suo orecchio di musicista fa preferire all’autore una musica di suoni nuovi, di ritmi che individuano anche le dissonanze, la possibilità di piegare gli strumenti a suoni imprevisti e a forzare la gamma. Uno dei problemi della musica contemporanea è stato l'esaurimento delle combinazioni. Si potrebbe dire la stessa cosa della poesia.
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Sono andato molte volte in questi anni con il treno metropolitano da Alfredo Giuliani in cerca d'aiuto, l'ultima per un impegno con l'Università d'insegnare scrittura e farlo da illetterato sporgendomi sulle nuove tecnologie digitali. Avevo adocchiato nella sua bella casa certi collages promettenti e mi dicevo che se a tenerli era Giuliani, di sicuro c'era del buono; se poi era lui l'autore con Novelli e gli altri, allora bisognava proprio che sapessi. Evitando accuratamente di approfondire l'argomento, pregustando gli eventi, mi misi daccordo per andare da lui con la mia camera.
Si arrampicò su una scaletta alquanto precaria e cominciammo dal primo in alto, nell'ingresso, mettendo in allarme Rupert che non era stato avvertito delle riprese - i suoi abbai infatti sono l'incipit, la sigla. Da pretesto il collage, ben presto, si fece fido conduttore ed io seppi a lungo cosa dire agli studenti ad Arcavacata, delle peripezie dell'arte, della sperimentazione e delle tecnologie dell'alfabeto in tempi non sospetti; dalla sua esperienza in Rai, dalla docenza a Bologna al Dams, muovemmo a ritroso per l'esperienza vertiginosa degli anni cinquanta e sessanta alla raccolta di spunti per la composizione e la progettazione di artefatti comunicativi per chi fosse alle prese oggi con l'immensa tavolozza del web e con il nuovo repentino abbassamento della lingua nelle pubblicazioni digitali.
«Non ricordo quando ho scelto la poesia. Da bambino leggevo i libri e i giornali che leggevano tutti i bambini; e forse qualcuno di più: favole, avventure, viaggi. Tra gli undici e i tredici, mi vedo affascinato e immerso, non so proprio perché, nel teatro: Goldoni; Alfieri; Shakespeare (in traduzioni ottocentesche), Metastasio (Didone abbandonata e Attilio Regolo). Dopo i tredici devo aver cominciato con i romanzi (Dickens, Stevenson, Dostoevskji, Dumas). Verso i quattordici divento lettore onnivoro, ricevo in regalo tutti i volumi della collana «I grandi scrittori stranieri» UTET (saranno stati un centinaio) e lì scopro Baudelaire e Shelley (tradotti in prosa). Fu allora, tra i quattordici e i quindici anni; che l'interesse per la poesia prese un certo sopravvento? Può essere, ma non ne sono affatto sicuro. Al ginnasio ebbi per un certo periodo un professore dannunziano. Amavo Leopardi e trovavo D'Annunzio detestabile, anzi repellente. Non sapevo ancora niente della poesia "moderna". Ma ciò che ricordo come un trauma incancellabile è la prima lettura di Rimbaud. Ero sui quindici anni e qualcuno mi dette Una stagione all'inferno e le Illuminazioni tradotte da Oreste Ferrari. Ero incantato, e sconvolto dal venire a sapere che quei poemi in prosa, scritti da un ventenne, risalivano al 1873-74. Stava per scoppiare la seconda guerra mondiale e io, che iniziavo il liceo, avevo messo un piede nella lirica "pura" mentre l'altro correva con gli esametri dell'Odissea (è dal mio maestro di liceo, il giovane Bruno Gentili, che mi venne inoculata la passione per la metrica). Eppure fino ai diciannove, venti anni non tentai di scrivere versi.(..)» (Alfredo Giuliani, LA POESIA È UNA COSA IN PIU', Ebbrezza di placamenti, il Verri" ,n.11-12, 1989)
La sua biografia per affrontare l' insicurezza dei giovani allievi, di chi non può provarsi e finisce col perdersi nell'afasia operosa dell'agire compulsivo studentesco; per me e i miei protetti, dire come usò l'autoanalisi per autorizzarsi da sè alla scrittura e alla poesia; come avesse maturato le scelte dei poeti nuovi e il sodalizio con Anceschi. Cercai con il video e i luoghi della rete che andavamo popolando, non qualcosa da aggiungere in gara col racconto, piuttosto con l'ascolto e le note a margine delle corrispondenze - non un vero e proprio metodo che s'ispirasse al modo di ricercare che poi condusse dai collages e le pieces alle Poesie di teatro, a riportare alla tipografia quel che circolava nell'ambiente, nei media, nelle performances, nei convegni - tecniche, utensili che divenissero strumenti nel procedere della sperimentazione, oggi come allora.
Nei Media Sincronizzati a base testuale di Orfeo, Luigi, Valeria, Daniele, Rosario e via via degli altri, con gli studi per esempio sul paratesto di Ale e Silvia che attivavano il laboratorio a distanza, nelle interfacce mobili e dinamiche di Nicola e Francesco, con i report degli avatar più originali in ascolto e visione, trovammo con Alfredo tracce ed echi bastanti per continuare a vederci e a registrare, tanto che ad un certo punto di decise di studiare per esempio Quindici e magari poi Il cavallo di Troia riviste guida che fornivano le piattaforme ideali della condivisione e del lavoro cooperativo per i gruppi di lavoro in rete.
«Quindici è un giornale fondato sulla fiducia interna, non sulla routine professionistica. Un gruppo di scrittori lo ha inventato dal nulla, e io sono uno di questi. Credevamo di poter fare una cosa che allargasse un poco la nostra udienza, e l'abbiam fatta. Abbiamo avuto successo,più di quanto noi stessi speravamo. Il merito non è mio, né del direttore editoriale. Il merito è della. fiducia reciproca che ha sorretto tutti noi. Io stesso, quale responsabile, non ero che un fiduciario del collettivo. Nessuno mi ha tolto la fiducia, e io la conservo da parte mia per tutti i collaboratori. Dunque perché, «sul più bello», ho deciso di andarmene? È difficile da spiegare, e mi ci proverò. Forse occorrerebbe un lungo discorso, una cronistoria minuziosa. Negli ultimi tempi mi estenuavo, più che a' raccogliere il «materiale», in lotte sempre meno allegre per bloccare le infiltrazioni di materiale oscuro e demagogico. Il mio crescente disagio nasceva dalla sensazione sempre più opprimente di essere entrato, quasi senza accorgermene, neila Ortodossia del Dissenso. Sia chiaro che io sono stato felice di pubblicare nei numeri scorsi certi documenti: le carte rivendicative degli studenti dell'Università di Torino, la teologia della violenza, la protesta dei cittadini di Orgosolo, sono fatti che noi abbiamo portato per primi all'attenzione di una grande cerchia di, lettori, fatti che era giusto parlassero con il loro linguaggio. Ma il materiale di cui è composta una rivista è forse meno importante dell'atmosfera in cui viene proposto. Il passaggio dal documento, o all'argomento, «giusto» al documento, o all'argomento, «facile» avviene in maniera percettibile ma subdola. Comincia il ricatto psicologico della cosa di cui si deve parlare. Il Dissenso diventa una merce che bisogna fornire. Non si ragiona più se non col Dissenso Comune.(..)» (Editoriale, PERCHE' LASCIO LA DIREZIONE DI « QUINDICI » di Alfredo Giuliani)
Non so più come fu che un giorno incorremmo nei dizionari e nei vocabolari e ci fu un'epifania da registrare – fui pronto con il videotelefono: “Tommaseo, alla lettera M, Morte, senti: Passione a cui sottostà il corpo quando l'anima cessa di ravvivarlo, capisci, la mentalità che ci sta sotto? Per questo bacchettone spiritualista, la morte non è un fenomeno ma una passione! Così alla fine quando hai letto la definizione sai cos'è la morte, ma non sai cos'è la vita.”
Poco male che non si faccia lezione ad Arcavacata, e non si risponda sul web alle domande dei “ragazzi”, anche se mi disse lui stesso dopo un pò di ritornare a farlo quando si fosse placato il mio disinganno: il maestro amico dovrà rispondere da molto lontano alle nostre domande, starà a noi raccorciare le distanze, oppure rimetterle e chiamarlo accanto.
«L'ironia non è ironica, spiegò una volta Alberto Savinio ai suoi lettori; diversamente da quanto si crede generalmente, l’ironia e’ seria. Quei temi risibili, nella scrittura di Orari contrari, toccano gli abissi quotidiani del senso e dell'insensatezza. Per convincersene, basta leggere con attenzione i due testi più «teoricí» del libro: Tempo supplementare e Lente deformante.
Il primo potrebbe valere come una irresistibile conferenza sulla lotta contro il tempo. Qui le frasi si concatenano in sequenze così ben consegnate e montate che perfino i luoghi comuni prescelti nel percorso paradossale suonano come gag. Potremmo anche sussultare di filosofico riso. L'altro testo, Lente deformante, descrive accuratamente la condizione dello scrittore che vorrebbe descrivere la realtà tale e quale, così come gli accade o gli accadrebbe di percepirla o allucinarla o ricordarla da instancabile osservatore di fenomeni e scrutatore di destini. Descrivere la morte in persona, fin dal suo primo timido apparire, mentre egli sta morendo. Insomma scrivere «come fosse lui stesso la morte che si autodescrive», morire con la penna in mano, questo sarebbe il massimo dei realismo e lo ripagherebbe degli enormi sacrificí compiuti per identificarsi con le parti in causa. Il libro termina con una svolta inattesa, poche righe in cui l'allegoria non è più ipotetica, non è più dimensione puramente mentale perché ha preso corpo in una realtà delicata, felice e inevitabilmente fragile»(Alfredo Giuliani, La Repubblica, su “Orari contrari” di Klobas)